26 gennaio 2006

Conoscete la vostra velocità?

© giorgio raffaelli
In fuga. In fuga dal dolore, dal lutto, dalla violenza, in fuga dall'America.
Innocenti ingenui e ignoranti, due under trenta americani si inventano la Missione: portare il dollaro americano direttamente in mano a chi non l'ha mai visto. Veloci veloci sempre più veloci, con la necessità di scordarsi del sè di ieri, di quello di domani, del luogo di provenienza. Un overdose di nuovi panorami da sovrapporre alle immagini stantie e sofferenti dei ricordi.

Noi lo sappiamo. La fuga è inutile se quel che vuoi scordare ti accompagna.
Ma forse il punto non è questo. Il punto è l'America. E gli Americani. E l'oggi.
Se prima osservavamo affascinati Jack & Neal vagabondare pieni di innocenza ed energia per le strade di un'America altrettanto innocente, ora per Will & Hand il giocattolo si è rotto. Rimane l'intenzione, ma mancano le energie, la capacità di ritrovare la strada. L'innocenza non ritorna, l'energia va cercata altrove.

Ma esistono da qualche parte? Intendo l'innocenza, l'energia: sono merci ancora disponibili sul mercato? Sono/siamo in grado di riconoscere i segni? Ritroveranno i nostri eroi un senso nell'orientamento della mappa globale?

Non so se sulla strada si possa trovare ancora una qualche risposta, se nonostante tutto il Marocco ricorda la California, la Lettonia il Nebraska e ovunque ci sono persone in vendita, persone invisibili e persone che non ti vedono. Del resto non importa quante volte abbiano tentato di convincerti, la tua storia non è un romanzo. E se correre attenua il dolore, alla fine la vita ti raggiunge lo stesso. Resta lo sguardo puro, la possibilità dell'innocenza.
Il prezzo è stato pagato.

Poche parole, frasi spezzate e pensieri sconnessi per tentare di raccontarvi Conoscerete la nostra velocità. Leggetelo anche voi: vi farà ridere, vi farà piangere, vi spezzerà il cuore e vi farà incazzare. Alla fine Dave Eggers vi lascerà sazi e ne avrete abbastanza.
Almeno per un po'.

24 gennaio 2006

La Zona


Through
Originally uploaded by Iguana Jo.
Cogliendo lo spunto da qui volevo proseguire nel discorso sul Gap in un viaggio parallelo al suo. Tanto il territorio è infinito e c'è spazio per tutti...

Il gap (ma chiamiamolo Zona che, concordo, è meglio) è qualcosa che mi ha sempre affascinato. La prima volta credo di averlo incontrato in Ballard (la sua foresta di cristallo ha un che di zonale come del resto molti degli altri suoi paesaggi, primo tra tutti il suo mondo sommerso), ma forse tutte le opere dell'autore inglese sono collocabili in qualche area della Zona, dall'isola di cemento al condominio, dai pianeti deserti alle piscine abbandonate...

A parte Ballard, mi sembra di aver visitato la Zona anche in qualche vecchio racconto di Lucius Shepard (a propo'... si vedrà mai una nuova edizione di Settore Giada?) o nei vagabondaggi del protagonista di Amnesia Moon e probabilmente l'elenco potrebbe proseguire ancora a lungo.
Del resto la Zona è sempre intorno a noi, appena al di là della sguardo, ai margini della percezione. La Zona è uno stato d'animo che prende dimensione geografica, lo spazio per un'esplorazione personale, una mappa in bianco per tracciare lo spazio interno.

La Zona è un ovunque personale, un luogo altro, una fuga, un rifugio, un sogno o un incubo. La verità sta negli occhi di chi lo osserva, di chi ha il coraggio di penetrarne gli oscuri e luminosi anfratti. La Zona ci penetra e ci circonda. La Zona siamo noi, da soli nel nostro mondo singolare.

Buon viaggio, attenti a non perdervi.

17 gennaio 2006

Bolzano/Bozen: apartheid provinciale

Originally uploaded by Aelle.

– Da dove vieni?
– Vengo da Bolzano.

– Ma allora parli tedesco...

Questo il ritornello che immancabilmente si ripete. Chiunque sia il mio interlocutore la sequenza è sempre la stessa: vieni da Bolzano?Allora parli tedesco.
Quello che magari cambia è l'intonazione della voce: a volte interrogativa, a volte curiosa, più spesso semplicemente affermativa. Evidentemente in Italia l'idea di Bolzano è questa: terra straniera incidentalmente dentro i patri confini.

Non mi interessa contestare, confermare o dibattere tale opinione. Non mi interessano abbastanza la patria (qualunque patria) e i confini, non mi interessa convincere nessuno al riguardo, non ho né la voglia né la capacità di imbastire un dibattito sull'appartenenza etnica. Francamente son tutte cose per cui provo una certa nausea.

Quello che posso fare è provare a raccontare quello che è stato crescere a Bolzano, le ipotetiche possibilità e le disillusioni della realtà, il potere tranquillizzante del denaro e come la prospettiva possa rendere relativo il concetto di maggioranza.
In breve, parlare dell'apartheid che ha contraddistinto la mia vita come quella di chiunque sia cresciuto nella provincia di Bolzano durante gli anni '70 (non che poi le cose siano cambiate, ma non ne ho più esperienza diretta).

Che poi nella sostanza il discorso non è nemmeno lungo. Da quando nasci a quando vai a scuola, dal quartiere in cui abiti al lavoro che ti scegli, dagli amici che frequenti alla tomba che occuperai, tutto è già definito. Questo suonerà incredibile nel resto d'Italia, ma è perfettamente possibile non parlare una sola parola di tedesco (salvo durante le interrogazioni a scuola) per tutta la propria vita bolzanina.
Ci sono asili, scuole elementari, scuole medie e scuole superiori italiane e asili, scuole elementari, scuole medie e scuole superiori tedesche. Nel raro caso in cui queste siano contigue (vedi la scuola elementare e le medie che ho frequentato) gli orari di ingresso sono diversi. I quartieri sono etnicamente suddivisi, nel punti di contatto ci sono linee di confine invisibili che tutti noi che ci siamo passati conosciamo e riconosciamo. Persino le chiese sono doppie. La stragrande maggioranza dei bar sono etnicamente frequentati, ovviamente le persone che ti trovi a frequentare parlano la tua stessa lingua. Anche il cimitero è diviso tra settori italiani e tedeschi.
Vista da fuori la situazione appare del tutto folle. Da dentro è assurdamente normale.
Poi per fortuna la vita è un po' meno prevedibile delle premesse etniche su cui vorrebbero fondarla, e le cose un po' più complicate, ma la volontà politica di tenerci separati è evidente.

Del resto a Bolzano le cose funzionano decentemente (a volte molto più che decentemente).
Nonostante le apparenze Bozano non è Belfast, in nessun momento si sono vissute situazioni paragonabili a quelle di altre regioni multietniche (abbiamo ancora tutti negli occhi le immagini della ex-yugoslavia, vero?), e anche se negli anni '60 s'è vissuta una breve stagione di terrorismo indipendentista la situazione non è nemmeno lontanamente paragonabile a quella dei paesi Baschi, tanto per rimanere nella civilissima Europa.

Come mai? Siamo naturalmente pacifici, miti e tolleranti o forse i motivi sono altri?
Come dicevo sopra non ho intenzione di inoltrarmi in analisi sociologiche/culturali/politiche etc etc.
Quello che ho visto e continuo a vedere è che nella ridente provincia bolzanina quella che in teoria dovrebbe essere una minoranza discriminata è in realtà una maggioranza discriminante, che i soldi pacificano molte situazioni spinose, che quando possiedi fisicamente (a volte in maniera legalmente inalienabile) la terra occupata dall'invasore e lo fai pagare pure molto per la sua permanenza non c'è alcun motivo pratico e/o ideale per innalzare barricate (salvo quelle morbide, che umiliano magari lo spirito ma che senz'altro non inducono sofferenze nel circondario).

Ovviamente queste brevi note non esauriscono il discorso, e magari ci tornerò sopra. Per ora mi piacerebbe davvero molto sapere qual è la vostra idea, l'immagine che vi siete fatti della mia terra d'origine. Che siate bolzanini, sudtirolesi o altoatesini, residenti o emigrati, che abitiate in qualsiasi altro luogo del mondo ditemi cosa ne pensate.
E raccontatemi magari com'è vivere a Bolzano ora.

12 gennaio 2006

Il vicolo


Bolzano Amarcord (1973-1981)
Originally uploaded by Iguana Jo.
Attenzione, post nostalgico, da leggere con prudenza. Poi non dite che non vi ho avvertiti.

Non so quanti palloni abbiamo forato giocando a pallone in questo vicolo. Ci passavamo interi pomeriggi (allora a scuola non c'era il tempo pieno), tutta l'estate che passavamo a Bolzano. Erano gli anni settanta e io ero Cruyff o Mazzola, Aldo era Beckenbauer o Rivera. Si giocava in due, tre, quattro al massimo, che di più non ci si stava. Le due porte erano l'ingresso del cortile di Aldo e quello di Carlo. In mezzo le solite auto parcheggiate (che se non ricordo male di solito erano una 128, una 127, più avanti c'era la Prinz - ahh, averci una foto!) il pallone che regolarmente ci si infilava sotto. Le pause erano date unicamente dalle auto che dovevano passare per andare all'officina in fondo al vicolo, o dai genitori che tornavano a casa.

Ma non c'erano solo le infinite partite di calcio. Il vicolo e i cortili che vi si affacciavano erano lo scenario ideale per i giochi di guerra, nascondino, guardie e ladri: si scavalcavano cancelli, si saltavano dirupi, muretti e scantinati tra un cortile e l'altro, tra un vicolo e l'altro (e gli abitanti degli altri vicoli erano nemici, alieni, sempre cattivissimi e pericolosi, del resto chi mai c'ha giocato insieme?).
Ricordo i nomi, ricordo le facce che avevamo: Aldo, Carlo, Giorgino (che fine hai fatto Giorgino?) c'erano loro tre soprattutto, poi c'era mio fratello Marco, la Monica e la Luisella, e gli altri che c'erano solo ogni tanto e i ragazzi grandi: Marco e Claudio, che avevano certamente di meglio da fare, ma che ogni tanto si adattavano a giocare con noi.
Ci divertivamo in questo vicolo, ed è strano vederlo così vuoto e silenzioso. Sarà l'inverno, o forse tutti i bimbi sono cresciuti. Tanto il vicolo non ha fretta, rimane lì, in attesa della prossima generazione di fanciulli da svezzare.

11 gennaio 2006

Piccola città, bastardo posto


Quest'ultimo fine settimana sono tornato a Bolzano, l'occasione: i 40 anni di uno dei miei migliori amici storici. Già dire sono tornato è sintomatico. Quando cresci in un posto non importa da quanto tempo o come te ne sei andato, alla fine è quello il luogo che chiami casa.

Ma Bolzano che razza di casa è? Ricordo che quando me ne andai, vent'anni fa, fu una sorta di liberazione. Certo, ero in pieno dramma adolescenziale, in rotta coi parenti, con una città che non aveva niente da offrire, con la necessità quasi fisica della fuga, con una sofferenza addosso che c'ho messo un sacco di tempo ad ammorbidire, ad addomesticare.

Ritorno a Bolzano dunque, non più cittadino, ma nemmeno turista (questo mai!), forse reduce. Da battaglie personali, da incontri, scontri, sconfitte e illuminazioni. Fughe e ritorni. E come un reduce vago per la mia città, la guardo con occhio attento alle minime variazioni, cerco nelle facce delle persone un ricordo, un volto. Il segno di un'appartenenza. Difficilmente capita di incontrarlo, ma in fondo non ne sento più il bisogno e la ricerca è più un'abitudine che una necessità. Che ormai con i miei piccoli fantasmi ho fatto la pace. Che per Bolzano non giro più ramingo, ma passeggio. Che ora che sono lontano è davvero un piacere il ritorno.
Bolzano in fondo non mi manca. Del resto con i vecchi amici i ponti non li ho mai tagliati. Se c'è una cosa che qui in pianura mi manca non è la città, casomai la montagna. Ma questa è un'altra storia. Ne riparleremo.

04 gennaio 2006

Mi sono innamorato di uno scimmione



Sono appena tornato dal cinema e sono molto molto contento. King Kong è meraviglioso, la quintessenza del film d'avventura come se ne facevano una volta. In più metteteci una tecnologia degli effetti speciali al top, una regia da cui traspare evidente l'amore per la magia del cinema, la capacità di Jackson di passare istantaneamente dalla scena più trucida a quella più demenziale, degli attori perfetti per i loro ruoli (dedicate un po' d'attenzione ai comprimari, sono fantastici!).
Insomma, andatelo a vedere, che merita.

02 gennaio 2006

Un banchetto per i corvi

Dopo averlo atteso per più di tre anni ho finalmente letto il quarto volume delle Cronache del ghiaccio e del fuoco di George RR Martin.
Non mi era mai capitato di nutrire un'attesa così spasmodica per un libro. Del resto non ho letto altri cicli con lo stessa tensione, la stessa capacità di avvincere, con personaggi così reali che ti sembra di conoscerli da sempre.
Chi conosce le Cronache mi capisce. A chi non ha mai letto Martin basti dire che è merito (o colpa, dipende dai punti di vista) di questa saga se ho iniziato a leggere in inglese. Ho fatto il mio primo ordine su Amazon proprio per poter far fronte alla crisi d'astinenza che m'aveva preso al termine del primo volume edito in italiano, a cui non faceva seguito alcuna traduzione dei successivi.
Poi è successo che mentre leggevo il terzo volume, già pregustando la prossima uscita del quarto, si sono diffuse voci secondo cui il buon Martin ne avrebbe rimandato l'uscita causa problemi nello sviluppo della storia stessa. Aaarggh!!!
Era il 2002. Si sperava in un ritardo di qualche mese, poi le cose gli sono evidentemente scappate di mano e ci siamo ritrovati alla fine del 2005 con questo A Feast For Crows, che nonostante le sue 700 pagine esce dimezzato nel suo contenuto: metà delle vicende e dei personaggi protagonisti dei volumi precedenti saranno protagoinisti della seconda parte in uscita il prossimo anno, si spera.

Ma com'è il romanzo? Valeva la pena aspettare tutto 'sto tempo?
Sì.
E no.

Sì. Perché ritornare a Westeros dopo tutti questi anni è stato fantastico. Ritrovarsi nella trama che filo dopo filo Martin sta tessendo, riconoscere una situazione, rivedere una faccia, rivivere un momento. Tutto molto bello. Avvincente e drammatico come ricordavo.
Però questo non mi basta. Oltre al panorama, allo sfondo, sarebbe bello avere anche un qualche primo piano, dei protagonisti all'altezza. Purtroppo in questo quarto volume i personaggi lo sono solo in parte. Leggendo fino in fondo il grosso tomo ci si rende benissimo conto delle difficoltà che l'autore deve aver attraversato nella stesura: la difficoltà di riempire con degli avvenimenti un momento interlocutorio della storia; la necessità del climax ogni tot pagine; il bisogno di far crescere alcuni personaggi e farne sparire degli altri.
Per questo ben vengano gli excurus turistico/geografici (sebbene conditi con un indigesto eccesso di genealogia e araldica). Ecco allora Dorne o Bravoos, le periferie delle città e i paesaggi di campagna. Ben vengano anche i peregrinaggi di Brienne e compagnia, ben vengano perfino le tetre riunioni degli uomini di ferro. Ma la sostanza manca, manca la presenza di un personaggio memorabile (c'è solo Jamie che con qualche alto e basso tiene comunque botta, che la dolce sorellina con tutta la sua (over)dose di stronzate e cattiveria non è più la regina che tutti ricordavamo), manca un qualche evento catalizzatore per tutta la storia. Insomma manca un centro, c'è qualche ghiotto accenno a quel che succederà, si gettano le premesse per cambiamenti epocali, si seminano indizi e si stuzzica l'immaginazione del lettore. Tutto bene con qualche riserva quindi, che per tutto il libro ho sentito la mancanza di personaggi come Daeneris, come Tyrion, anche di Catelyn, tanto per dire. Speriamo dunque che il prossimo capitolo esca al più presto, che da Martin siamo abituati ad aspettarci sempre qualcosa di più.