30 luglio 2008

Il cavaliere oscuro


Originally uploaded by Lyricis.
Non avevo troppa voglia di andare a vedere Il cavaliere oscuro. Ormai credo di aver raggiunto la soglia di saturazione per quanto riguarda le versioni cinematografare dei miei fumetti preferiti: tutte in fondo simili, tutte prevedibili, con l'unico pregio di far nostalgicamente saltare fuori dalle pagine personaggi e situazioni a cui sono tuttora molto affezionato. Le eccezioni che emergono dalla melma informe del cinema di derivazione superomistica si contano sulle dita di una mano, e alcune non derivano nemmeno dalla carta stampata.
Tra i film decenti ci si può in effetti infilare anche il primo capitolo della versione nolaniana dell'uomo pipistrello. Batman Begins era un buon film certo, ma non abbastanza da farmi sbavare per questo nuovo capitolo della sua saga.
Poi però mi sono imbattuto in questa recensione di Elvezio Sciallis e non ho saputo resistere.

Riletta col senno di poi, nella recensione di Sciallis tutti i segnali erano ben presenti, solo che preso dall'entusiasmo li ho volutamente ignorati.
Il film in effetti è grandioso e gli attori perfetti (con la parziale eccezione di Maggie Gyllenhaal che nemmeno a me è piaciuta troppo). Tecnicamente Il cavaliere oscuro è ineccepibile e c'è pure una storia che regge agilmente fino in fondo.
A fine visione mi son rimaste però un sacco di perplessità.

Mi viene da dire che probabilmente i nostri standard qualitativi hanno ormai raggiunto un punto di non ritorno se riusciamo a giudicare in maniera tanto entusiasta un film che a ben guardare non è altro che l'ennesimo giro sulla giostra del baraccone ipercinetico pseudoprofondo e ultraviolento (ma senza una goccia di sangue, mi raccomando!) del cinema hollywoodiano di ultima generazione.
Certo, ci sono innumerevoli esempi di film peggiori, ma oh… cos'ha questo Batman di così originale e innovativo? Cos'hanno il pipistrello e il Joker e tutti gli altri comprimari che non fosse già presente nei fumetti? Cosa c'è di realmente nuovo e indimenticabile in questo film?

Scrive Sciallis: "Il Cavaliere Oscuro è il tunnel di tenebra dove nessuno vince mai e dove i pochi momenti di fiducia nell’esser umano suonano forzosi e appiccicaticci, quasi inseriti come ripensamento per alleggerire il peso di una condizione di lupi in lotta, dominati dalle leggi del caos e del caso, e vi è ben più di un semplice spostamento di lettera fra i due poli."
Quasi tutto condivisibile, cambiandone però in toto la cifra interpretativa. Qualunque film che presentasse inserti "forzosi e appiccicaticci" verrebbe proprio per questo affossato e infine dimenticato. Io aggiungo che non solo "i pochi momenti di fiducia nell’esser umano" risultano posticci, ma che altrettanto inutili sono moltissime delle innumerevoli scene di puro intrattenimento spettacolare, gli inseguimenti e l'overdose quasi pornografica di esplosioni e macerie. Tutti 'sto sfoggio di allegra e spensierata devastazione era davvero necessario?

Insomma, a me è sembrato che Nolan abbia dovuto (voluto?) adeguarsi a un po' troppe esigenze, abbia voluto (dovuto?) accontentare tutti, e sia rimasto vittima di quell'esuberante gigantismo dello spreco che sembra contraddistinguere le ultime mega produzioni americane. Ci rimette, neanche a dirlo, l'esito complessivo della pellicola che perde quanto di buono investe nel doppio confronto tra le oscurità contrapposte del Joker e del Cavaliere oscuro e in quello speculare tra l'intransigente ma compromesso Harvey Dent e l'incorruttibile Gordon, a causa di quel senso di irrealtà diffusa che mette sempre più a dura prova la sospensione dell'incredulità dello spettatore.
Vedi per esempio la compostezza delle folle in ogni situazione esplosiva (in questo senso è premonitrice, posta com'è ad introdurre il film, la scena della rapina dove nessuno si sorprende nel vedere un autobus sfondare il muro di una banca e uscirne come niente fosse…), vedi i poteri davvero super del Joker che è ovunque e prevede qualunque mossa di chiunque per tutto il corso del film, vedi - come già sottolineato - lo strabordante ed esagerato e in definitiva insopportabile ricorso allo spettacolo della violenza, con Batman che no, non uccide (sia mai!), ma che non esita a mitragliare e a far esplodere qualsiasi mezzo si frapponga tra lui e la sua meta mentre scorrazza per le affollate strade di Gotham. (Ma forse ormai siamo assuefatti. Chi si trova in mezzo diventa come tradizione un “effetto collaterale” e quindi, chissenefrega?).

In fondo il susseguirsi incalzante di esplosioni-inseguimenti-esplosioni riconduce il film entro gli ambiti confortanti del solito canone da cinema d'azione, quando invece ne Il cavaliere oscuro c'erano tutte le potenzialità per rendere il viaggio dello spettatore nel tunnel di tenebra che avvolge Gotham qualcosa di indimenticabile. Ecco, forse le mie perplessità di fine visione hanno più il sapore del rimpianto per quello che avrebbe potuto essere, che quello della delusione per ciò che abbiamo visto.
Il cavaliere oscuro è solo un grande film. Ma la bellezza non sta sempre nelle dimensioni.

23 luglio 2008

Scorci da un'Irlanda fantastica


Picture by Iguana Jo.
Mancano poche settimane alla partenza per l'Irlanda e per iniziare ad assaporare l'atmosfera dell'isola mi sono finalmente deciso a leggere King of Morning, Queen of Day che da (troppo) tempo riposava sullo scaffale dei libri in attesa di lettura. Questo vecchio romanzo di Ian McDonald (è stato pubblicato nel 1992) racconta le vicende di tre generazioni di fanciulle che si muovono sullo sfondo della storia irlandese dello scorso secolo, con gran dispiego di meraviglie, sorprese ed eventi straordinari.
Il libro si presenta con tutte le caratteristiche del romanzo fantasy: il colore verde dominante, l'illustrazione di copertina con signorina discinta nel bosco fatato, la presentazione che enfatizza i poteri magici che scorrono nel sangue delle protagoniste. Forse son proprio questi sottili messaggi subliminali ad avermi tenuto lontano per tutto questo tempo dal romanzo, chissà…

Non ho ancora terminato la lettura, ma questo è un libro che pretende di essere raccontato, uno di quei romanzi che vorresti tutti potessero leggere, tanto avvincente e meraviglioso è il panorama che McDonald dispiega di fronte al lettore.
Più sopra parlavo di fantasy. Io non amo in modo particolare il genere, specialmente nella declinazione che sembra dominare l'editoria nostrana, che lo identifica unicamente o nello standard medievaleggiante pseudo tolkeniano o nel paradigma similpotteriano che ha invaso gli scaffali delle librerie negli ultimi anni. King of Morning, Queen of Day è a tutti gli effetti un libro fantastico. Ma è anche un libro che travalica gli angusti confini del genere e che apparirà a seconda del suo lettore, decisamente fantasy per l'incontestabile presenza di fate e folletti e altri esseri indubbiamente soprannaturali, oppure impudentemente fantascientifico per l'incontestabile coerenza con cui l'autore sforna teorie e spiegazioni a sorreggere l'impianto ultraterreno su cui si sviluppano le vicende del volume.
Un romanzo insomma che farà storcere il naso ai fondamentalisti (purtroppo, che sia fantasy o sf, ogni genere ha i suoi lettori integralisti) e che probabilmente per questo motivo è rimasto pressoché sconosciuto dalle nostre parti.

Per darvi un'idea del clima che si respira nelle sue pagine vi lascio con una citazione, che mi pare assuma un valore quasi programmatico riguardo le intenzioni dell'autore.

I have this dread that afflicts me in the dead of the night: it is that somehow, we have lost the power to generate new mythologies for a technological age. We are withdrawing into another age's mythotypes, an age when the issues were so much simpler, clearly definited, and could be solved with one stroke of a sword called something like Durththane. We have created a comfortable, sanitised pseudofeudal world of trolls and orcs and mages and swords and sorcery, big-breasted women in scanty armour and dungeonmasters; a world where evil is a host of angry goblins threatening to take over Hobbitland and not starvation in the Horn of Africa, child slavery in Filipino sweatshops, Colombian drug squirarchs, […].
Where is the mythic archetype who will save us from ecological catastrophe, or credit card debt? Where are the Sagas and Eddas of the Great Cities? Where are our Cuchulains and Rolands and Arthurs? Why do we turn back to these simplistic heroes of simplistic days, when black was black and white biological washing-powder white?
Where are the Translators who can shape our dreams and dreads, our hopes and fears, into the heroes and villains of the Oil Age?


Spero abbiate voglia di cercarlo, che King of Morning, Queen of Day è uno di quei romanzi capaci di lasciare davvero soddisfatto il lettore affamato di fantastico.
Ci risentiamo a fine lettura.


15 luglio 2008

Miserabili. Io e Margaret Thatcher.


Picture by Iguana Jo.
Miserabili. Io e Margaret Thatcher è il titolo dello spettacolo teatrale che Marco Paolini sta portando in giro per l'Italia con i Mercanti di liquore. L'altra sera erano a Modena (vedi le foto) e ci hanno offerto due ore e mezza di intensa passione civile, di divertimento tutt'altro che spensierato, di musica e canzoni e pensieri di quelli che ti rimangono dentro a macinare e a lottare con le tue convinzioni, con la tua memoria, con l'essere qui e ora, sempre più persi, sempre più impegnati.

Lo spettacolo ha la forma degli album a cui Paolini ci ha abituati, con l'attore a vestire i panni del suo alter-ego Nicola e di una manciata di personaggi del suo nord-est in una serie di istantanee che offre uno scorcio sugli ultimi decenni della nostra storia, con la memoria che si fa grimaldello per scassinare il pensiero unico, con la convinzione forte che senza un sentire comune e un agire condiviso ci si ritrova qui e ora apparentemente più ricchi ma inesorabilmente miserabili di fronte all'umanità senza portafoglio che ci circonda.

Tra tutti gli album questo m'è parso essere è il più spietato, forse perché viviamo tempi disperati, forse perché il tema che fa da sfondo a tutto lo spettacolo è quello dell'economia, soggetto unico divoratore di realtà, sostanza inesorabile di cui è impregnato tutto il nostro presente.
Come abbiamo potuto diventare così miserabili? Quando sono cominciate a precipitare le cose? Queste sono le domande cui Paolini cerca di rispondere, ripensando agli ultimi venticinque anni, risalendo fino al dopoguerra, per evocare nel finale l'incubo delle speculazioni bancarie e l'opera di desertificazione sociale che ha caratterizzato l'azione politica e culturale di questi anni.

Certo, come tutti i precedenti capitoli nella vita di Nicola anche in questo non mancano i momenti divertenti e liberatori, anche se ho trovato davvero paradossale la reazione di parte del pubblico che sembrava non riuscire a trattenere la risataa ogni minima occasione di divertimento, neanche fosse di fronte a una sit-com, anche nei momenti in cui da ridere c'era, secondo me, veramente poco, messi di fronte alle nostre meschine debolezze, alla nostra esaltata omologazione, al nostro quieto vivere codardo e rassegnato. E Paolini a chiedersi, a chiederci, con uno sconcerto forse solo parzialmente teatrale, se erano le battute a risultare così divertenti o se fosse proprio il testo ad essere buffo. Lasciandomi un retrogusto amaro che rarissime volte ho provato con il suo teatro.

Poi, per fortuna, ci sono stati istanti in cui la maestria dell'attore insieme alla fortuna del momento hanno regalato attimi davvero esilaranti. Come quando interrogando il pubblico sulla seconda legge della termodinamica (strano soggetto per una piece teatrale, ma Paolini è Paolini) si sente rispondere dalla platea con una definizione sublime dell'entropia: "l'acqua la va a la basa" che lo lascia senza parole, che lo costringe a modificare la scaletta, ma che gli offre l'occasione per far sfoggio d'improvvisazione scaldando il pubblico con un tentativo di dialetto emiliano.

Assistere a uno spettacolo di Marco Paolini è sempre un'esperienza esaltante, una sferzata di vita vera in questi tempi anche troppo artificiali, una passeggiata lungo i binari della memoria fatta con l'unico scopo di andare incontro al presente che incombe un po' più attrezzati. Una boccata di ossigeno per continuare a resistere.

Lo spettacolo finisce con Paolini che intona con i Mercanti di liquore una vecchia canzone di Gaber. Ci portiamo le parole a casa, sperando di non scordarle troppo in fretta.

"La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche il volo di un moscone,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione."



07 luglio 2008

Ritorno in Irlanda


Donegal, 1995
Picture by Iguana Jo.
Tra meno di un mese partiremo per una vacanza in Irlanda. Dall'ultima volta son passati tredici anni ma il ricordo dell'isola, della sua gente soprattutto, s'è mantenuto formidabile fino a oggi. Per questo motivo non vediamo l'ora di tornare, per lo stesso motivo speriamo di non rimanere delusi.

Un po' inseguendo l'onda del ricordo, un po' per evitare i luoghi più trafficati, un po' per scoprire finalmente un territorio conosciuto più per la cronaca che per le sue caratteristiche, abbiamo deciso che la meta principale del nostro viaggio sarà l'Ulster.

L'Irlanda del Nord è una mia fissa da parecchio tempo. Forse da quando mi sono reso conto che non ci voleva poi molto perché anche il posto dove sono cresciuto diventasse un inferno come sembrava essere Belfast in quel periodo. Sì, io sono stato molto fortunato a non crescere nell'Ulster degli anni '70, e forse proprio per questo m'è rimasta la curiosità di vedere, di leggere, di ascoltare le voci di quella terra.

L'ultima volta che siamo stati in Irlanda siamo passati per Enniskillen, siamo ripartiti con una batteria nordirlandese per la macchina (la nostra Fiesta non ne voleva sapere di andarsene) e con il ricordo delle fortificazioni che circondavano le stazioni di polizia, dei metri e metri di filo spinato, ma anche dei prati verdi e della gentilezza delle persone.

Manca meno di un mese alla partenza. In queste settimane c'è ancora tempo per leggere o scoprire ancora qualcosa di quei posti così lontani, così vicini.
Tutti i suggerimenti riguardo luoghi da visitare, libri da leggere, persone da incontrare, sono benvenuti.


03 luglio 2008

William Gibson


Picture by FredArmitage.
Complice la compulsione alla catalogazione di cui sono vittima ultimamente per colpa di Anobii, ecco un'altra corsa sul binario delle letture passate.
Oggi tocca a William Gibson. Nell'attesa di leggere Guerreros riporto anche qui qualche nota sui suoi libri precedenti (e perdonate le ripetizioni, se potete):

Neuromante (Neuromancer), 1984
Una supernova per l'immaginazione. Dopo aver letto questo romanzo nessun'altra lettura è stata più la stessa. La luce in un mondo fantascientifico sempre più crepuscolare e asfittico.

La notte che bruciammo Chrome (Burning Chrome), 1986
In questo volume sono raccolti i racconti che hanno cambiato definitivamente la mia percezione della fantascienza.
Più che un libro, una leggenda.

Giù nel ciberspazio (Count Zero), 1986
Monna Lisa Cyberpunk (Mona Lisa Overdrive), 1988
Neuromante è forse il mio romanzo di fantascienza preferito, una di quelle letture capaci da sole di cambiare la percezione della realtà, per questo motivo ho lasciato trascorrere davvero molto tempo prima di leggere gli altri due romanzi che compongono la trilogia dello Sprawl. Avevo il timore che come spesso accade i seguiti non fossero all'altezza dell'originale.
In effetti questi romanzi non sono all'altezza di Neuromante: impossibile eguagliare l'impatto incredibile che quel romanzo ha avuto sull'immaginario collettivo e sul mio in particolare. Ciò nonostante sia Giù nel ciberspazio che Monna Lisa cyberpunk sono due ottimi libri, opere in cui all'esplorazione della matrice e delle sue conseguenze sul vivere comune si affiancano le storie di personaggi memorabili.
La trilogia dello Sprawl ha ridefinito i confini della fantascienza. Anche ora che il cyberpunk è morto e sepolto le tracce di Case, Bobby e compagni sono ben visibili in un sacco di romanzi contemporanei.
Qui trovate gli originali.

La macchina della realtà (The Different Engine), 1991
Ho poco da dire su questo libro: è l'unico romanzo di William Gibson che proprio non ho digerito. Colpa di Sterling, senza dubbio.

Luce virtuale (Virtual Light), 1993
Con questo romanzo Gibson inizia a ricalibrare la sua fantascienza su intervalli temporali più stretti, sperimentando una scrittura meno visionaria ma non per questo meno efficace per indagare una realtà in perenne mutamento.
La sua capacità di raccontare il prossimo futuro come fosse già avvenuto è micidiale, ma Luce virtuale soffre un po' troppo di questo cambio di registro e non tutto funziona come dovrebbe.
Certo, Chevette Washington è un gran bel personaggio, il ponte un'idea grandiosa resa in maniera perfetta, ma purtroppo la storia latita, e le dinamiche che legano i protagonisti suonano già sentite, quasi retoriche e insomma non all'altezza dei precedenti romanzi gibsoniani.
Un romanzo comunque buono, anche se non memorabile.

Aidoru (Idoru), 1996
Il mio giudizio del libro poteva essere viziato dal fatto che io ho adorato il Gibson della trilogia dello Sprawl e dei racconti de La notte che bruciammo Chrome. Tanto mi erano piaciuti quei libri tanto mi aveva deluso Luce Virtuale che sì, era un libro leggibile e anche piacevole, ma non era un libro all'altezza del William Gibson che ricordavo.
E invece vi dirò che arrivato in fondo, Aidoru mi è piaciuto veramente tanto. Ok, non raggiunge il livello della trilogia (impossibile del resto... troppe parole sono state scritte dai tempi dello Sprawl a oggi), ma riesce comunque a rendere benissimo l'idea di un futuro che per Gibson sembra già passato, vista la naturalezza con cui lo descrive.
Ecco, per Gibson la fantascienza forse è già realmente defunta. Lui descrive un presente solo leggermente scivolato in avanti. In effetti il maggior pregio del libro sta proprio nella capacità di Gibson di rendere reale e tangibile un domani ancora ipotetico. Anche se la storia in sé non ha niente di trascendentale, l'accuratezza del background e la profondità di campo della sua scrittura lo rendono comunque una lettura se non indimenticabile senz'altro superiore alla media.

American Acropolis (All Tomorrow's Parties), 1999
Prima di dire due cose sul American Acropolis devo fare una piccola premessa: Gibson è uno dei miei autori sf preferiti, di lui leggerei volentieri anche la lista della spesa. Detto giusto per evitare fraintendimenti... perche' ho avuto l'impressione che l'autore abbia scritto American Acropolis più per dovere che per comunicare qualcosa di nuovo.
Il romanzo si legge bene, Gibson è pur sempre Gibson, quello che manca è proprio la sostanza: la trama è quasi inesistente e infarcita da una parte di spudorate coincidenze, dall'altra di un mistero che rimane irrisolto; i personaggi, seppur tutti in qualche modo interessanti, sembrano muoversi un po' spaesati all'interno del volume.
Un libro senz'anima, e un bel passo indietro rispetto ad Aidoru.

L'accademia dei sogni (Pattern Recognition), 2003
L'accademia dei sogni rappresenta un grosso passo in avanti rispetto agli ultimi romanzi di Gibson e un enorme passo avanti rispetto ad American Acropolis. Una lettura adatta a questi tempi, uno sguardo lucidamente fantascientifico sulla nostra realta'.
Alcune note sparse:
- il romanzo parte come fosse la versione narrativa di No Logo, e un po' si rimpiange il deragliamento verso qualcosaltro, verso i confini di logoland;
- nonostante una scrittura freddissima, quasi chirurgica, Gibson non lesina emozioni al lettore. E la fantascienza (assente di fatto, ma aleggiante in spirito) lo aiuta non poco.
- i personaggi di Gibson sono sempre piu' evanescenti, vengono definiti quasi solo da quello che li circonda. Da cio' che li veste;
- i veri protagonisti del romanzo, gli elementi cui Gibson infonde il suo personale soffio vitale non sono persone, sono le citta', i luoghi reali o quelli solo immaginati. Londra Tokyo Mosca diventano percepibili come mai prima. Gli scorci di architettura post industriale, le luci e, ovunque, i marchi, definiscono le identita' e le differenze. Globalizzazione vs. localismo.
- Gibson non rimpiange il passato, ma una qualche nostalgia forse c'e'. Come spiegare altrimenti le visiere cromate, i Case nel testo, i giubbotti scuri?
- Io invece rimpiango un pochino le storie dal basso: in questo romanzo c'e' tutto un dispiegarsi di piani alti, lusso consumistico e ricchezza sfrenata. Alla lunga lo sfoggio e' quasi irritante.
- Gibson cede qualcosa al nuovo corso Stephensoniano. Altrimenti i Curta che ci stanno a fare? Pero' i suoi crittografi sono molto piu' scoppiati.
- Gli hacker dello Sprawl si sono trasformati in cacciatori semiotici. Non so bene cosa significhi, se sia bene o male, ma ok, di storie come questa ne voglio ancora.
- Non c'e' un solo pc in tutto il romanzo!


01 luglio 2008

Rapporto letture - Giugno 2008


Picture by Iguana Jo.
Ecco qui l'elenco delle letture di giugno:

Lui Tasini - Piccola storia del 'se' caduto dal terrazzo
Di questo libro ho già parlato qualche settimana fa, qui non mi resta che ribadire quanto mi sia piaciuto. Piccole storie con un grande cuore.

Kathryn Davis - Il luogo sottile
Le premesse per un'ottima lettura c'erano tutte, almeno a leggere la presentazione del romanzo sul sito di minimum fax. Mi aspettavo un romanzo in cui il fantastico si mescolasse con la quotidianità, in cui le caratteristiche di questo favoloso luogo sottile si manifestassero turbando e meravigliando, o al limite sconvolgendo, la tranquilla esistenza dei personaggi che animano la tranquilla cittadina di Varennes. Mi sono ritrovato invece tra le mani un incrocio tra Desperate Housewives e il National Geographic, con una spruzzatina di soprannaturale e una dose eccessiva di afflato mistico religioso.
Kathryn Davis è un'ottima narratrice ma molto probabilmente io non sono il suo lettore ideale.

William Faulkner - L'urlo e il furore
Finalmente l'ho letto. Era da parecchi anni che io e questo romanzo ci fiutavamo da lontano. Periodicamente il nome di Faulkner saltava fuori nei più diversi contesti, e il titolo del romanzo era spesso citato da molte delle persone di cui apprezzavo gusti e letture. Ma per un motivo o per l'altro rimandavo sempre il momento di prendere il libro in mano.
In effetti L'urlo e il furore è tutt'altro che una lettura semplice, ma oh… che soddisfazione arrivare in fondo.
Per quanto io sia facile all'entusiasmo sono davvero poche le volte che ho usato il termine capolavoro, però il romanzo di Faulkner se lo merita tutto. La progressione labirintica della vicenda, il pugno di personaggi che la muovono, la capacità di Faulkner di dare una voce unica e irripetibile ai vari membri della famiglia Compton nelle quattro parti che compongono il testo, la forza devastante con cui conduce in porto una storia tragica e sublime, tutto si fonde in un'opera davvero fondamentale nel panorama letterario del ventesimo secolo.
Per concludere questa nota vi lascio con le parole di Faulkner, in un brano citato anche nella postfazione di Bertolucci, che mi pare descriva in maniera perfetta il rapporto che lega autore e lettore nel viaggio tra le pagine di questo volume: "Tu e io soltanto allora tra l'esecrazione e l'orrore in un cerchio di pura fiamma."

George R. R. Martin - Le torri di cenere
Lasciando da parte ogni considerazione sulle strategie di marketing della mondadori, ecco la prima parte del volume che raccoglie in maniera esaustiva tutta la produzione breve di George R. R. Martin.
Nei dieci racconti che compongono questa antologia la fantascienza la fa da padrona, con una serie di storie che mostrano le capacità di Martin di evocare nuovi mondi, più o meno avanzati, più o meno pittoreschi, sempre profondamente imbevuti di umanità. In effetti questi racconti, tutti risalenti agli anni '70 dello scorso secolo, risentono molto dell'atmosfera del periodo con la componente scientifica e tecnologica piuttosto sfumata e un peso decisamente maggiore dato alla costruzione dell'atmosfera e delle relazioni tra i personaggi.
Quella che scrive Martin non è il genere di fantascienza che preferisco, ma nonostante queste non siano le sue Cronache, il volume si legge comunque volentieri.

Fred Vargas - Io sono il tenebroso
Terzo tentativo con i gialli della scrittrice francese. In questo caso ritornano in scena gli Evangelisti, già visti in azione in Chi è morto alzi la mano. In questi caso però i tre storici con zio al seguito rimangono sullo sfondo, mentre i primi piani sono tutti riservati al Tedesco, che sarà anche un personaggio interessante, ma che non ha un decimo dell'appeal del quartetto protagonista del romanzo precedente.
La Vargas scrive bene, i suoi personaggi son sempre ben delineati e riconoscibili, ma la vervé che mi aveva conquistato al primo incontro con i suoi romanzi qui mi sembra decisamente più sfumata. Oltretutto la vicenda gialla imbastita dall'autore è oltremodo prevedibile e quando la tensione poliziesca viene a mancare (ben prima di arrivare a metà del volume) del libro rimane ben poco di memorabile.
Nonostante i suoi difettiIo sono il tenebroso rimane comunque una lettura piacevole e rilassante, ma dopo averne letto tanto bene in giro mi aspettavo qualcosa di più.

Prossimamente letteratura americana a go-gò, altra fantascienza e forse forse anche qualcosa d'italiano.

Seguite i link per le letture di gennaio, febbraio, marzo, aprile e maggio.