16 novembre 2008

Parole sante?


Originally uploaded by vkp_patel.
Vagando per Anobii mi sono imbattuto in un commento a Lo Hobbit che ha attirato la mia attenzione e fatto scattare alla tastiera:
"Ho il sospetto che una delle ragioni per cui ai giovani lettori piacciono tanto fantasy e fantascienza sia che, quando lo spazio e il tempo sono stati alterati permettendo ai personaggi di viaggiare comodamente ovunque attraverso il continuum , sfuggendo così ai pericoli e alla spietata legge dell'orologio, il problema della mortalità affiora di rado"
Thomas Pynchon

Ma come? Pynchon citato a commento di Tolkien? Wow! che ardire! che occasione di discussione!
La mia risposta poteva essere più brillante, lo ammetto, ma oh… sono i rischi della reazione impulsiva:
"Evidentemente capita anche ai geni di dire delle strunzate :-)
(secondo te/voi, i giovani lettori si pongono il problema della mortalità?)"


La risposta di sigurd, brillante autore dell'insolito accostamento letterario non si è fatta attendere:
"E' proprio questo il problema, ma non dipende da loro.
Tolkien e simili offrono ai ragazzi ciò che "vogliono" non ciò di cui hanno bisogno.
Io sono stato "giovane lettore", forse lo sono ancora, e il problema della mortalità me lo ponevo spesso, e me lo pongo tuttora; è forse l'unico grande tema su cui ogni grande scrittore dovrebbe farci riflettere. Se uno scrittore non si confronta con la mortalità, per me non è un grande scrittore e farebbe bene a raccogliere telline o spaccare ricci."


La chiacchierata poteva tranquillamente proseguire in quella sede, ma preferisco spostarla qui, per comodità, che il sistema dei feedback anobiiano non è troppo comodo da seguire. Ecco che si parte:

Prima di arrivare al punto un'osservazione a sigurd riguardo quanto scrive: ma tu sai davvero ciò di cui i giovani hanno bisogno?
Parliamo quindi di mortalità. Io non credo che un giovin-lettore si ponga sul serio il problema dell'entropia dell'universo, tanto meno di quella personale. Solitamente son concetti talmente astratti da essere di volta in volta esaltati quanto ignorati, ingigantiti quanto sottovalutati, esaltati quanto paventati. Le valutazioni solite insomma di chi non conosce davvero ciò di cui va riflettendo. E va bene così, ci mancherebbe! Sai che tristezza per il giovin-lettore mettersi a fare i conti alla sua tenera età con l'inevitabilità della propria fine.

E gli scrittori che dovrebbero fare? Mah…
Il fatto è che non sono così sicuro che la mortalità debba essere il leitmotiv fondamentale della letteratura occidentale (è di questo che stiamo parlando, no?), tanto meno di quella nicchia della narrativa che risponde al nome di fantascienza (per la fantasy il discorso si fa molto più arduo, credo, dovendo prima capire cosa intendiamo per fantasy, se quella di derivazione più specificatamente Tolkeniana, o se invece si vuole allargare il discorso sul fantastico toout-court). Limitiamoci alla fantascienza dunque.
La fantascienza è soprattutto letteratura di idee. È speculazione nella sua più alta espressione. Può assumere le vesti di letteratura escapista, è vero (e ciò nonostante può rimanere ancora molto divertente!), ma nelle sue espressioni migliori è ben ancorata nel presente e tutt'altro che libera dalla "spietata legge dell'orologio".

Con queste premesse come fai a isolare e focalizzare l'attenzione solo sulla mortalità? E perché poi?
A volte ho come l'impressione che mi sfugga il punto. Per dire: 'sta cosa della mortalità è davvero così fondamentale? Non ci siamo già troppo immersi di nostro, lettori e scrittori alla pari, tanto che il tema è praticamente inevitabile ogni qualvolta raccontiamo una storia?
O meglio: raccontare una storia non rappresenta sempre un tentativo - velleitario, magari sopravvalutato - di cercare l'immortalità? o almeno di sfuggire alla morte?

Ogni approfondimento è benvenuto.

06 novembre 2008

Rapporto letture - Ottobre 2008


Picture by Iguana Jo.
Dashiell Hammett - L'istinto della caccia
Ogni volta che mi imbatto in un libro come questo non posso fare a meno di pensare che gli americani mi hanno ormai definitivamente fottuto il cervello, non senza il mio totale accordo, sia chiaro. Voglio dire, se non avessi letto Raymond Chandler nella mia adolescenza vedrei il mondo nello stesso modo?
I racconti di Dashiell Hammett raccolti in quest'antologia sono perfetti per spiegare il fascino che gli USA hanno esercitato su di me: poche balle, dialoghi fulminanti, un pragmatismo che sfiora il sublime, un rigore morale senza pari, il tutto condito con abbondanti dosi di testosterone e piombo, senza dimenticarsi di gettare uno sguardo attento alle pieghe più oscure del circondario. Questo in una serie di racconti scritti 80 anni fa. Roba da rimanerci secchi.


Cormac McCarthy - Cavalli selvaggi
Dopo aver letto l'antologia di Hammett prendere finalmente in mano questo romanzo di Cormac McCarthy m'è sembrata la soluzione più ragionevole. Gli ingredienti sono gli stessi, con in più tutta la consapevolezza derivata dai decenni che separano i due scrittori. La frontiera di McCarthy dopotutto è cresciuta nello stesso humus che ospita le gesta dell'anonima lince hammettiana e i valori e le gesta dei protagonisti sono in qualche modo sovrapponibili. Del resto gli eroi di McCarthy sono gli stessi della tradizione hard-boiled inaugurata da Hammett: monolitici, individualisti all'estremo, portatori di un codice assoluto e inflessibile ma al contempo estremamente pragmatici e comunque emarginati dal consesso sociale vigente. Cow-boys in perenne e inarrestabile cammino verso il tramonto.
Cavalli selvaggi in questo senso è esemplare, ambientato alla fine degli anni '40 dello scorso secolo sembra scritto in presa diretta tanto vera risulta l'atmosfera della frontiera texano-messicana che si respira nel romanzo.


Paolo Nori - Spinoza
Del romanzo di Paolo Nori ho già parlato in questo post. Come ricordavo in quell'occasione, se ci fosse qualche amante dello scrittore emiliano on-line, mi piacerebbe davvero capire con che atteggiamento andrebbero affrontati romanzi come questo, che temo a me sfugga qualcosa.


Bertrand Russell - Perché non sono cristiano
Visti i tempi mefitici che ci troviamo a respirare prendere in mano un libro come questo di Bertrand Russell è una salutare boccata d'ossigeno.
Nel corso della lettura si vivono sensazioni che vanno dalla totale ammirazione per la brillante capacità argomentativa di Russell, allo sconforto più terribile per quanto le cose siano rimaste ferme all'epoca in cui l'autore scriveva queste pagine. Tanto ovvie e ragionevoli sono le posizioni espresse dal filosofo inglese, tanto il mondo sembra essere rimasto bloccato in un circolo vizioso di superstizione, sospetto e intolleranza, con i culti dell'ignoranza (per usare un'espressione eganiana) che proliferano allegramente mentre il libero pensiero sembra sempre più emarginato. Ma ieri Obama ha vinto le elezioni, quindi perché preoccuparsi?


Stephen King - L'ultimo cavaliere
Per finire il mese in bellezza ecco un altro romanzo che deve molto al western. Ma L'ultimo cavaliere non è solo sangue sudore e polvere da sparo. Oltre al western epico - ispirato comunque più dalle tinte oscure di un Sergio Leone piuttosto che a quelle più tradizionali del cinema a stelle e striscie - il primo romanzo di Stephen King mi sembra sia altrettanto debitore alla new wave fantastico/fantascientifico degli anni '60/'70 dello scorso secolo. Come altro spiegare la pressante componente lisergica del romanzo? E l'atmosfera onirica che si respira nel deserto della torre nera non è simile a quella rintracciabile tra le pagine di un Moorcock o di un Delany?
Erano più di vent'anni che non leggevo un romanzo del Re, beh… questa prima puntata nel mondo della Torre Nera mi ha fatto tornare la voglia di frequentarlo.


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