31 marzo 2010

Sotto il segno della pecora


Picture by Iguana Jo.
Quando si dice la sincronia. Venerdì nominavo Haruki Murakami parlando del romanzo di Clelia Farris. Sabato ho trovato a metà prezzo Kafka sulla spiaggia e oggi scopro che da un paio di settimane è di nuovo disponibile in libreria Sotto il segno della pecora.

Nel corso degli anni Sotto il segno della pecora è diventato una sorta di sacro graal per gli amanti nostrani dell'autore giapponese. Uscito nel 1992 per Longanesi, prima che Murakami fosse un nome conosciuto al grande pubblico, non era più stato ristampato da allora. Io lo stavo inutilmente cercando da tempo, praticamente da quando, letto Dance Dance Dance, ho scoperto il legame che univa i due romanzi.
Ora Einaudi l'ha riportato in libreria in una nuova traduzione di Antonietta Pastore con il titolo Nel segno della pecora.

Non fatelo sparire un'altra volta, per favore.

26 marzo 2010

Nessun uomo è mio fratello


Picture by Aelle.
Vi avverto, questo post corre il rischio di trasformarsi strada facendo in uno spot, e se succederà lo farà del tutto consapevolmente. Perché non capita tutti i giorni (non mi era MAI capitato) di leggere un romanzo italiano di fantascienza come Nessun uomo è mio fratello di Clelia Farris.

Nessun uomo è mio fratello è una perla preziosa, un piccolo gioiello ancor più straordinario se pensiamo che questo è un romanzo di fantascienza, anzi, un romanzo di fantascienza italiana. Le qualità del romanzo di Clelia Farris lo rendono tanto inconsueto, originale e prezioso che diventa doveroso provare a parlarne per diffonderne la conoscenza il più possibile, con buona pace di chi pretende che in questo blog si lavori sempre e solo contro la produzione nostrana.

Nessun uomo è mio fratello è inconsueto per la naturalezza e la profondità della caratterizzazione dei vari personaggi che calcano le scene del romanzo. Con pochi accenni e una sensibilità rara Clelia Farris rende immediatamente vivi, riconoscibili e tridimensionali anche le comparse più invisibili. Quante volte ci siamo imbattuti in personaggi che sembrano vivere solo in funzione del plot imbastito dall'autore? In questo romanzo è piuttosto il contrario. I vari tipi umani che animano la storia sembrano tutti avere una vita loro da qualche parte, fuori dalla pagina, tanto è naturale il loro ingresso in scena, le loro relazioni - tra loro e con il protagonista - e il modo personale di muoversi negli spazi del romanzo. Se questo è valido per i comprimari ancora più mirabile è la costruzione del carattere del protagonista: Enki, figlio senza madre di un contadino dispotico, che dopo un'infanzia vissuta con qualche problema tra le risaie del villaggio natale approda a una vita randagia e segreta tra i palazzi e i viali della grande città.
Le contraddizioni che caratterizzano il suo percorso di crescita sono rese in maniera tanto credibile da risultare del tutto inevitabili, e rendono la personalità di Enki decisamente complessa, tanto che se l'identificazione con la sua vicenda è immediata, i dubbi e i turbamenti che lo perseguitano diventano per il lettore interrogativi sempre più stimolanti man mano che ci si inoltra nel mondo del romanzo.

L'ambiente in cui si muove il protagonista è l'aspetto forse più originale di Nessun uomo è mio fratello.
Mi è piaciuto il modo in cui Clelia Farris ha mantenuto le connotazioni generali dello scenario molto sfumate (non sappiamo dove o quando siamo, non sappiamo nemmeno se ci troviamo nel nostro universo, anche se personalmente propendo per un paese tipo Vietnam un qualche centinaio di anni nel futuro), e al contempo l'estrema precisione e il dettaglio con cui descrive le condizioni del mondo che circonda da vicino i suoi abitanti. Il vedersi piombare in una realtà aliena (come contesto) ma estremamente familiare (nei particolari) rende il lettore immediatamente partecipe e attento alla vita e agli avvenimenti che animano le giornate dei vari protagonisti del racconto. Il world-building è progressivo e prosegue fino al termine della lettura con un equilibrio davvero raro per un'autrice che in fondo è solo al secondo romanzo. Il lettore accompagna Enki nel suo percorso di apprendimento e scopre con lui la realtà che lo circonda. Gli scarti temporali che caratterizzano la vicenda, se da un alto sorprendono il lettore scagliandolo improvvisamente in una terra incognita, dall'altro lo obbligano ad avvicinarsi sempre più al punto di vista del protagonista, unica certezza - si fa per dire - in un mondo in rapido mutamento.

Nel confronto tra Enki e il suo mondo entra in gioco l'aspetto fantascientifico del romanzo, ed è nella gestione del carattere diverso di questa realtà che Clelia Farris dimostra l'efficacia della sua scrittura. Proprio nel suo essere senza ombra di dubbio un romanzo di solidissima - e personalissima - fantascienza Nessun uomo è mio fratello è forse il libro più prezioso che possiate trovare oggi in libreria. In questo romanzo non ci sono spiegoni, il volume dell'infodump è ridotto ai minimi termini tanto da risultare all'effetto pratico del tutto irrilevante, eppure ogni pagina del romanzo trasuda fantascienza, ogni avvenimento è permeato dalla diversa realtà che sottende ogni azione di tutti i personaggi del romanzo, i turbamenti e l'evoluzione del carattere del protagonista sono scanditi dal suo perenne confrontarsi con l'essenza di questo mondo altro.
Il nucleo pulsante di Nessun uomo è mio fratello è costituito dalla dicotomia Vittime/Carnefici che abbraccia ogni aspetto del mondo di Enki. A leggerlo nella presentazione del romanzo mi sembrava quanto di più trito e banale e scontato si potesse incontrare oggi, XXI secolo, in un romanzo di fantascienza. Il classico esempio di un tema già sviscerato fino alla noia dai grandi autori del passato riciclato dal volenteroso autore italiano di turno in mancanza di un'ispirazione più originale.
E invece…
E invece Clelia Farris è abilissima nel mantenere l'humus fantascientifico della vicenda costantemente fuori fuoco, lasciandolo maturare tra il non spiegato e quei singoli episodi, apparentemente accessori, che lo portano improvvisamente alla ribalta. Quello che rimane è il confronto tra un giovane uomo e una realtà che gli risulta incomprensibile prima, intollerabile poi. L'intero universo narrativo del romanzo è costantemente costretto a fare i conti con la realtà aliena del marchio che distingue coloro che nascono Vittime da coloro che nascono Carnefici. Tutta la società è strutturata secondo codici non scritti che vedono le vittime come remissivi agnelli in attesa di un lupo che ne gestisca energie e capacità. La storia di Enki è quella di una ribellione ad uno status quo inalterabile, codificato nel genoma stesso della popolazione.
Le scelte di Enki, le sue azioni e loro conseguenze dettano i tempi narrativi del romanzo. Ma molto più efficace m'è sembrata l'atmosfera che l'autrice ha saputo ricreare. Un'atmosfera che a me pare debba qualcosa a Miyazaki e a Murakami, rispettivamente per il ritratto leggermente surreale di ambienti e persone al primo, per l'esasperato individualismo asociale del protagonista al secondo, oltre che a un indubbia conoscenza di luoghi e dinamiche sociali che si incontrano trasfigurati nel romanzo ma che sono spazi e relazioni reali, qui e ora.

Leggendo Nessun uomo è mio fratello non ho colto alcun difetto sostanziale, forse qualche situazione rimane un po' troppo didascalica (penso soprattutto al rapporto univoco vittima/carnefice - che forse andava maggiormente approfondito - o ai problemi connessi alla fabbrica di tessuti) ma in generale la scrittura di Clelia Farris m'è parsa sempre perfettamente calibrata, matura e capace di gestire le situazioni più difficili.

Nessun uomo è mio fratello è davvero un ottimo romanzo, ma soprattutto è una graditissima e inaspettata sorpresa. Se seguite questo blog sapete come la penso sulla fantascienza italiana. È quindi davvero un piacere imbattersi in opere capaci da sole di ribaltare la mia opinione su quel che è in grado di offrire il genere a noi lettori qua fuori.
Insomma, cercate questo volume, leggetelo e parlatene. E non fatevi ingannare dall'immagine di copertina.
Dentro il libro è molto, molto, meglio.

16 marzo 2010

Letture febbraio 2010


Picture by Iguana Jo.
AA.VV. - Alia. L'arcipelago del fantastico.
Di questo numero di Alia ho parlato abbondantemente in questo post. Qui non mi resta che rinnovare l'invito a procurarvelo. Se siete appassionati di letteratura fantastica e curiosi di conoscere ciò che sono in grado di proporre gli autori italiani entro i suoi ampi spazi, beh… questo Alia è un'ottima introduzione al genere.


Thomas Pynchon - Contro il giorno
Anche il romanzone di Thomas Pynchon s'è meritato un post apposito qualche giorno fa. Ma Contro il giorno è un romanzo capace come pochi di restituire al mondo la complessità delle sue storie ed è talmente ricco di suggestioni e denso di contenuti che nessun post può rendergli giustizia. Sono davvero contento di averlo incontrato.


Philip Pullman - Lo spaventapasseri e il suo servitore
Mio figlio Jacopo ha 9 anni ed è rimasto tanto soddisfatto da questa storia da volere assolutamente che la leggessi anch'io. Lo spaventapasseri e il suo servitore ha la struttura della più classica delle favole e racconta le peripezie dei due personaggi del titolo (una sorta di Don Chisciotte e Sancio Panza a misura di bambino). Ma questo piccolo romanzo di Philip Pullman è anche una favola in cui la parola magia non viene mai utilizzata (in compenso si citano atomi ed elettricità), una storia in cui i cattivi non sono orchi o stregoni ma finanzieri e avvocati. Ne Lo spaventapasseri e il suo servitore non si lesinano trovate brillanti e inserti meravigliosi, ma questi elementi fantastici non impediscono di scorgere le piccole meschinerie che caratterizzano molti degli incontri lungo la strada e soprattutto la cattiveria di tutte le strutture di potere che i due protagonisti incontrano sul loro cammino.
Probabilmente un bimbo di nove anni non è in grado di cogliere tutti questi dettagli, ma se lo spirito di questo tipo di narrazione è sufficientemente forte da rimanergli comunque impresso per me è già una bella soddisfazione.


Elmore Leonard - Tutti i racconti western
Il West come ultima possibilità per l'immaginazione. Il West come simbolo e paradigma di un'umanità scomparsa. Il West come alambicco storico per distillare l'anima di un'epoca. Il West come sangue e sudore e polvere, come silenzio e violenza e improvvisi scoppi di dolcezza.
Il West di Elmore Leonard è il West che tutti conosciamo, quello degli Apache e dei cow-boy, delle giacche blu e dei pistoleri, delle case nella prateria ai margini del bosco e dei saloon, degli sceriffi, delle diligenze. Ma le storie western di Elmore Leonard rappresentano qualcosa di più di un semplice ritorno nostalgico allo spirito della frontiera. Scritti per la maggior parte mezzo secolo fa questi racconti riescono nel mirabile compito di ridefinire le coordinate del mito anche per i lettori di questo nuovo millennio. Spogliati da qualsiasi folklore, incredibilmente ricchi di passione, con uno sfondo che da mero palcoscenico diventa parte integrante della storia, fondamentale anzi a definire ruoli e caratteri della varia umanità che lo attraversa, i racconti di Leonard sono tanto essenziali da risultare immensi ed eterni come il cielo e il deserto dell'Arizona e i suoi protagonisti veri giganti che si stagliano scolpiti come montagne alla luce del tramonto.
Onore al merito anche a Luca Conti che mi ha dato l'impressione di aver svolto un ottimo lavoro di traduzione soprattutto nello svecchiare il linguaggio per adeguarlo ai tempi.
Cavalcarono verso Ovest, il resto è storia.

15 marzo 2010

Houston, avevamo un problema.


Picture by kozan.
Non che ora sia magicamente scomparso, ma almeno è rientrato entro coordinate più comprensibili e, speriamo, risolvibili. Comunque sia sono di nuovo qua, dopo una settimana piuttosto pesante. Ma non voglio farla tanto lunga, piuttosto scusarmi con chi è rimasto in attesa di una risposta ai suoi commenti, o a un'email di ritorno: ogni tanto la vita vera ha la precedenza.
Mi dispiace anche di essermi perso un bel po' di altre chiacchiere e frequentazioni on-line, ma per questo si rimedia a breve. Stay tuned.

03 marzo 2010

In medio stat virtus?


Picture by Iguana Jo.
Qualche giorno fa su uno Strano Attrattore è comparso un post che univa polemica a recensione e che comprendeva una dichiarazione programmatica che si basava su un preciso assunto:
"Parlo di libri nella norma … Sono questi libri a fornire lo stato di salute di un genere, essendo per la massa molto più facile condizionare la percezione esterna di quanto non lo sia per un singolo titolo … o per un singolo autore … "

Per quanto riguarda la recensione del romanzo di Oppegaard e la discussione sullo stato dei rapporti tra fandom e letteratura di genere vi rimando al post originale di X.
Qui mi interessa approfondire il discorso su quali sono gli aspetti preponderanti di un genere letterario che ne determinano una data percezione presso il pubblico generalista e quello specializzato. Nello specifico si parlerà di fantascienza, ma credo che le ipotesi che salteranno fuori siano valide anche per i generi limitrofi, in particolare fantasy e horror.

Il motivo che mi ha spinto a scrivere queste note è molto semplice. Trovo che la tesi espressa da Giovanni De Matteo sia davvero poco convincente e non individui correttamente i valori che spingono un lettore a riconoscere le caratteristiche salienti di un genere letterario.
Come facciamo a essere certi che per i lettori sia la massa dei prodotti qualsiasi - purché etichettati come fantascienza - a determinare il riconoscimento di tutto un genere? Da dove deriverebbe questa identificazione?
Immagino che l'unico modo che il lettore ha di farsi un'idea di un genere sia frequentarlo, magari sporadicamente o eccezionalmente - penso al lettore generalista o mainstream che dir si voglia - o al contrario in maniera più assidua, addirittura esclusiva e univoca, come accade ai lettori specializzati più spesso di quanto non ritenessi possibile.
Sono convinto che l'idea che questi due lettori tipici si faranno della fantascienza sia poco sovrapponibile, ma comunque in qualche modo coerente con quello che il genere ha da offrire.

Detto questo, a me pare che sia assai più probabile che, qualsiasi tipo di lettore si voglia considerare, la percezione di cosa sia in un dato momento il genere fantascienza non possa in alcun caso derivare dal prodotto letterario medio quanto piuttosto da due modelli fondamentali: il classico sempreverde o il nuovo paradigma. Al primo possiamo ascrivere chessò, Isaac Asimov piuttosto che Philip Dick e romanzi come Fahrenheit 451 o Fanteria dello spazio, al secondo, dai contorni decisamente più sfumati, autori come James Ballard o Iain Banks e romanzi come Neuromante o Distress o qualsiasi altro titolo sia riuscito a dare uno scossone al genere e/o al suo particolare pubblico di quel determinato periodo.

Il lettore generalista si farà un'idea della fantascienza per averne sentito parlare, per averla vista citata, per aver letto i testi più noti e più facilmente reperibili in libreria. Nessuno di noi lettori specializzati consiglierà mai a un amico mainstream un testo che consideri meno che fondamentale. Può anche succedere, e temo capiti con una frequenza non insolita, che il lettore generalista decida di sapere benissimo cos'è la fantascienza basandosi sull'assunto che è quella roba che vendono in edicola oppure trovandosi a leggere proprio l'Urania medio da cui è partita la discussione. Ma temo che in tal caso sia ben poco probabile che questo lettore torni sui suoi passi e dia una seconda possibilità al nostro genere preferito.

Il lettore specializzato, al contrario, sa già benissimo che esistono un sacco di fantascienze diverse e credo sappia altrettanto bene quali sottogeneri apprezza di più e quali preferirebbe evitare. La sua percezione del genere deriva dalla quantità di letture pregresse e da quelli che per lui sono i riferimenti principali. Avendo letto nella sua storia di lettore decine di romanzi e racconti ben lungi dalla perfezione (il cosiddetto prodotto medio) sarà naturalmente più disponibile a scendere a compromessi sulla qualità letteraria del testo, ma al contempo non perderà mai di vista quelle che sono, a suo giudizio, le vette della produzione. Ambirà di conseguenza a trovare quanto più spesso possibile testi analoghi. Come credo capiti a tutti, tenderà a ricordare soprattutto le opere che più lo hanno entusiasmato o, al contrario, quelle che proprio non gli sono andate giù, relegando all'oblio tutti quei volumi che lo hanno magari divertito, ma che costituendo la gran massa delle sue letture non sono stati in grado di colpirlo come solo i grandi racconti o romanzi sono riusciti a fare.

Da questi esempi mi pare evidente che un modello come quello prospettato da Giovanni nel suo blog sia del tutto alieno alla mia esperienza.
C'è però un'ulteriore considerazione da fare.
Se il discorso appena fatto lo trasliamo dal mondo dei lettori a quello degli scrittori le cose acquistano effettivamente un senso diverso. Se ci immaginiamo un autore che voglia misurarsi con il genere fantascienza allora sì che il discorso sulla qualità media del genere ha una sua credibilità. Uno scrittore sa benissimo che, quali che siano le sue aspettative, l'ipotesi di aver realizzato il prossimo capolavoro fantascientifico globale è con tutta probabilità abbastanza remota. Se è dotato di un minimo di umiltà e concretezza riconoscerà i propri limiti e accetterà di confrontarsi con quello che, con un approccio antitetico rispetto a quello del lettore riportato precedentemente, possiamo continuare a definire prodotto medio. Si rapporterà con quella che è l'offerta letteraria del momento, con la segreta speranza di essere premiato dai lettori stessi, con la consapevolezza che "capolavoro" è una definizione che si coniuga a un testo solo dopo che è stato letto, non al momento della stesura, tantomeno a quello della sua pubblicazione.