22 febbraio 2011

Fuori tempo massimo.


Originally upload by machu picchu.

Revolutionary Road è il film che Sam Mendes ha tratto dall'omonimo romanzo di Richard Yates.
Il film è formalmente perfetto, non ha una sbavatura e rende in maniera magistrale il clima conformista e repressivo del più classico sobborgo americano anni '50.
Tutto in questo film è così perfetto che alla prima incrinatura sembra debba saltar tutto l'impianto. La pressione sale e sale e anche se non ci sono grossi dubbi sull'esito finale, si rimane avvinti alla pellicola fino al drammatico epilogo.

Revolutionary Road racconta il punto di non ritorno di una crisi: Frank e April Wheeler sono due coniugi che si ritrovano a fare i conti con lo scarto tra quel che credevano di essere e quel che invece sono.
Il film affronta tutte le tensioni generate da dinamiche politiche e sociali centrifughe e opposte: da una parte l'esaltazione del talento individuale, dall'altra la massificazione omologante della comunità che circonda i protagonisti. Al centro della storia c'è il confronto tra sogni e bisogni, tra il rischio del cambiamento e la comodità della routine, tra le opportunità del cambiamento e la noia della routine.

Mendes svolge molto bene il tema. In Revolutionary Road ci sono tutti gli ingredienti giusti al posto giusto, dalla fotografia patinata, alla ricostruzione storica (how! tutti quei cappelli!), dalle scenografie alla messa in scena fino ai vai comprimari: vedi l'agente immobiliare tutrice del buon nome del quartiere, ma con figlio dalla parola troppo libera (ehi! è pazzo! se lo può permettere!), vedi l'amante comoda o gli amici tristi. E soprattutto ci sono loro: Leonardo DiCaprio e Kate Winslet in forma smagliante, che fornisco un ottima prova attoriale e rendono vivi e disperati quanto basta i rispettivi personaggi.

Guardatelo questo film, secondo me merita proprio.
Poi, una volta visto, magari ritornate qua che a me son rimasti un paio di dubbi.

Fuori tempo massimo, scrivevo sopra.
Il dubbio per me è tutto in quelle tre parole.
Quando Richard Yates pubblica Revolutionary Road è il 1961 e in una storia come quella dei coniugi Wheeler si avverte tutta la capacità sovversiva di un romanzo in grado di cogliere un nodo nevralgico del vivere comune di quegli anni.
Per raggiungere lo stesso risultato un film girato oggi non può limitarsi a riproporre pedissequamente gli stessi temi e le stesse situazioni di allora.
È questa la differenza sostanziale tra i due progetti: il film di Mendes ha quel mezzo secolo di ritardo che disinnesca in toto il potenziale socio-politico del film e lo trasforma, da critica esplicita della società americana contemporanea, in un drammone storico.
Ma gli autori non sembrano rendersi conto del fuori sincrono e il film va dritto per la sua strada costringendo lo spettatore ad una sintesi tra due visioni parallele e difficilmente conciliabili. Da una lato c'è trasparente la necessità di attribuire responsabilità esterne alla crisi dell'individuo (società oppressiva, spinta omologante, lavoro massificato), dall'altro ci sono quelli che sono i momenti migliori della pellicola, ovvero gli scontri e i silenzi tra i due protagonisti, che riconducono la crisi a un contesto decisamente più intimo e personale.
Paradossalmente questa molteplicità di prospettive è il limite maggiore del film, che rimane ingabbiato tra una critica politica depotenziata, vuoi dalla distanza temporale, vuoi dall'estetica vincente del periodo (gli anni '50 di Mendes sono davvero belli da vedere!) e un racconto personale continuamente invaso dalla voce fuori campo del canto e controcanto morale dell'epoca.
Lo spettatore si adegua, e se certo soffre le tensioni e le frustrazioni dei personaggi, le trasferisce in un mondo altro dal suo, lasciandosi solo sfiorare dalle suggestioni e dai turbamenti che una Revolutionary Road meno pastellosa e più vicina sarebbe stata in grado di evocare.

17 febbraio 2011

La verità di Robert Reed


Picture by Iguana Jo.
Robert Reed - La verità
È da un po' di tempo che ho questa recensione in preparazione, ma non mi decidevo a concluderla. C'è qualcosa di sfuggevole in questo romanzo breve di Robert Reed. Un non so che di irritante che non riuscivo a inquadrare, la sensazione che non tutto tornasse e che nel fuoco del romanzo ci fosse molto più fumo di quanto non apparisse a prima vista.

La verità è un romanzo breve ottimamente congegnato in forma di psicodramma con due protagonisti archetipi: l'inquisitore e il prigioniero.
La storia è narrata dal punto di vista di Carmen, inquisitrice specializzata nel ricavare informazioni anche dai soggetti più riottosi, e si sviluppa nel progressivo disvelamento del ruolo e della personalità del prigioniero Ramiro, terrorista islamico transtemporale in missione per un non meglio precisato scopo.
Il confronto tra i due e le rivelazioni sullo stato e il destino del mondo fanno crescere costantemente la tensione narrativa fino al drammatico epilogo.

Le mie perplessità su La verità non riguardano lo sviluppo della trama, la costruzione dei personaggi o il complesso delle relazioni che legano protagonisti e comprimari. Riguardano piuttosto l'ambizione di Robert Reed di costruire un contesto politicamente rilevante e riconoscibile e le conclusioni a cui giunge.
Quando una storia ha per protagonista un terrorista islamico prigioniero del governo americano, quando compaiono scenari come la Baghdad di questi anni, o il Kashmir, o lo stesso carcere di massima sicurezza dove si svolge la maggior parte dell'azione (una specie di Guantanamo sotterranea); quando si parla di metodi per giungere alla verità, di interrogatori, di diritti dei prigionieri e doveri degli inquisitori, di menzogne a fin di bene o di scambi d'informazioni è inevitabile trovarsi a ragionare sui fatti e la cronaca di questi ultimi anni.
Se ammettiamo che lo specchio deformante della fantascienza debba aiutare a comprendere le dinamiche generali di una particolare situazione politico/sociale, allontanando il fuoco dell'osservatore dal particolare, favorendo quindi la costruzione di una teoria politica universale scevra da partigianerie locali, allora dobbiamo riconoscere che il particolare specchio adottato da Robert Reed è tanto deformato da non permettere alcuna identificazione tra realtà romanzata e vita vera, tranne che per gli aspetti più superficiali (toponomastica, linee di comando e modalità di comunicazione). Andare oltre, e riconoscere a La verità valenza di parabola politica e capacità di riproduzione del reale in un contesto fantascientifico, significa secondo me sbagliare il bersaglio favorendo una visione del mondo semplificata e fuorviante.

Qui di seguito provo ad annotare gli elementi del romanzo che mi hanno dato da pensare.

Se il nemico (il terrorista islamico Ramiro) ha caratteristiche che lo avvicinano più al mondo del divino che a quello degli uomini, ha ancora senso un confronto tra posizioni reciprocamente incomprensibili?
Ramiro nella sua cella risulta essere praticamente onnisciente e imperscrutabile, è insensibile sia all'approccio violento (tortura e/o minacce non ottengono nulla) che all'approccio umanitario (quando offre qualche informazione è per gentile concessione, mai dietro esplicita richiesta), si dimostra ineccepibile nella sua fibra morale e coerente, fino alla fine, nelle sue posizioni. Nel finale poi il suo comportamento è curiosamente simile a quello di Cristo in croce di fronte all'orrore della fine.
Ingannare un dio per estorcergli la verità e farlo con la massima naturalezza a me pare obiettivo quanto meno arrogante. Robert Reed evita il ridicolo grazie all'ottimo lavoro di costruzione della vicenda, ma quel che è valido narrativamente non è detto abbia lo stesso valore dal punto di vista politico.

Se non c'è nessuna spiegazione alle azioni del terrorismo e nemmeno il loro scopo è chiaro, che senso ha tirarlo in ballo?
Che Ramiro sia un terrorista islamico è dato per certo sin dalla sua prima comparsa. Ma nulla nel suo comportamento lo identificherebbe come tale qui-e-ora. Di più: l'autore si affanna in tutti i modi per rendere credibile la minaccia terrorista, ma per quanto il concetto venga ribadito è difficile diventi vero unicamente per la reiterata ripetizione dello stesso. Il terrorismo dovrebbe avere una sua agenda, ma questo aspetto pare essere totalmente al di là delle capacità immaginative di Reed.

C'è poi la solita questione dei buoni e dei cattivi. Non c'è dubbio, non c'è alternativa: noi siamo i buoni, loro sono i cattivi, e per quanto i nostri politici lavorino per mandare in vacca il pianeta, per quanto la situazione sia in costante peggioramento, non c'è alcun serio dubbio che Ramiro rappresenti il male e Carmen la paladina del bene. Costi quel che costi (in questo senso mi pare esemplare la gestione del personaggio della guardia carceraria, chi ha letto capirà), la giustizia trionferà.

Come se poi esistesse una versione univoca della realtà. Nel romanzo è dato quasi per scontato che l'opinione altrui, la vita altrui, ha un valore unicamente in funzione della capacità che ha di fornire informazioni utili a chi interroga. L'utilità è sempre direttamente proporzionale alla conferma del punto di vista del potere che dirige i nostri eroi.
Poi sì, certo, gli inquisitori che si vedono comparire nel corso del romanzo hanno i loro bei dubbi morali. Dubbi immediatamente accantonati (in un modo o nell'altro, si veda la fine di Collins, l'inquisitore che precede Carmen nel lavoro con il prigioniero), non appena si scorge una crepa nelle difese dell'avversario.

"La verità ti renderà libero. Ma solo quando avrà finito con te."
Sarebbe stato magnifico veder esemplificata in un racconto fantascientifico l'affermazione di David Foster Wallace. Purtroppo nel romanzo di Reed la verità è qualcosa cui non ci si avvicina mai, mascherata com'è dietro tutti i paraventi che l'autore schiera a proteggere un segreto che non c'è.


15 febbraio 2011

Lethem & Dick


Picture by Iguana Jo.
Forse interesserà sapere ai visitatori fantascientifici distratti che questa settimana esce per miminum fax un volume di Jonathan Lethem interamente dedicato a Philip K. Dick.
In Crazy Friend sono raccolti saggi, racconti, ricordi che legano l'autore di Brooklyn alla fantascienza dickiana.

Per chi legge in formato elettronico c'è anche da segnalare che fino a domenica 20 marzo l'editore regala l'ebook del volume a chi acquisti qualche altro titolo dalla neonata libreria digitale di minimum fax.

Non sono mai stato un fan di Philip K. Dick (ne parlavo qui), però questa volta un po' mi dispiace, perché Jonathan Lethem è invece uno dei miei autori preferiti.
Probabilmente leggerò comunque il volume, ma non credo riuscirò mai ad apprezzarlo tanto quanto un vero credente del culto dickiano.

I due tizi nella foto non sono ovviamente né Lethem né tantomeno Dick, però mi piaceva pensare a cosa avrebbero potuto combinare insieme.
Sogni di meduse elettriche sui muri di Frisco?


14 febbraio 2011

Se non ora, quando?

Foto dal sito de La Gazzetta di Modena

Ieri io e Annalisa abbiamo partecipato alla manifestazione "Se non ora, quando?" qui a Modena.
Queste sono alcune impressioni sull'evento.

- le ragioni della protesta sono note (se non lo fossero, dove vivete?).

- le ragioni dalla protesta sono condivisibili (in certi casi i "se" e i "ma" non servono a nulla, ecco perché c'eravamo).

- la ragione principale che mi ha spinto a partecipare alla manifestazione è la sempre maggiore insofferenza a chiacchiere, distinguo, menate. Tutte ragionevoli, certo. Qualcuna pure condivisibile. Ma se alla fine le chiacchiere diventano più importanti dei fatti e i distinguo più pesanti delle azioni, beh… secondo me c'è qualcosa che non va. E partecipare a una manifestazione - a questa manifestazione - per quanto sia gesto minimo e probabilmente inutile, diventa necessario per mettere qualche paletto tra ciò che è giusto e ciò che secondo me continua ad essere sbagliato.

- La piazza era piena. Ed era un bel vedere. Tante persone diverse. Tante persone normali. Senza bandiere, senza etichette, senza divisa. Insomma, non mi ci sentivo troppo a disagio.

- La piazza era piena. Ma era piena di vecchi. Io ho più di quarant'anni, l'età media dei partecipanti mi pare fosse ancor più elevata.

- La piazza era piena. Ma dopo aver sentito le stesse cose per la decima volta, ripetute con parole diverse a volte appassionanti, a volte noiose, a volte arrabbiate, sempre giuste e mai imbarazzanti, è salita la stanchezza. Le cose dette sono vere e sono giuste, ma le conosco già. Capisco la necessità di ribadirle, che forse c'era qualcuno che non le aveva mai sentite, che forse servono a sentirsi meno soli, che forse rinfocolano il sentimento di appartenenza e la partecipazione e la speranza, però…

- Alla fine è come andare a messa: parole per i credenti, il rito della comunione di idee, la liturgia della protesta.

- Siamo andati a berci una birra. A parlare della nostra testa dura, a sentirci comunque inadeguati a queste forme di opposizione. Alla fatica che si fa a capirle e a parteciparvi, che nonostante tutto - lo sappiamo! - sono importanti. Rendendoci conto che ogni alternativa alla manifestazione di piazza è probabilmente peggio del male che l'ha provocata e, molto probabilmente, illegale.

- Siamo tornati a casa e ci siamo visti Robin Hood insieme ai pargoli.

E voi? Come avete vissuto la giornata?

12 febbraio 2011

La ragazza continua a divertirsi

Cyndi Lauper mi è sempre stata simpatica. Non ho mai avuto un suo disco, ma lei non è certo la tizia che ti fa cambiare stazione se per caso ti capita di incrociarla alla radio.
Anzi, proprio l'altro giorno quei bravi ragazzi di K-Rock hanno fatto passare un pezzo dal suo ultimo disco (io manco sapevo che la ragazza fosse ancora in giro, tanto per farvi capire quanto seguo la scena ultimamente), e beh… è stata una gran bella sorpresa.
Un bluesaccio abbastanza sporco e cattivo da farmi rizzare le orecchie, ma anche abbastanza dolce e sentito da alimentare la curiosità.
Insomma, mi son procurato il disco e mi fa piacere condividere con voi la sua musica (e poi dovevo pur inaugurare in qualche modo il nuovo corso grafico del blog!).



08 febbraio 2011

ITIS Galileo


Picture by Iguana Jo.
Sappiamo bene di quale prestigio godano le materie scientifiche qui da noi.
Sappiamo bene come il mondo delle lettere schifi e ignori scienziati e affini.
Sappiamo bene quanto è difficile dare visibilità e risalto al metodo scientifico, all'indagine razionale, al dubbio e alla curiosità quali insostituibili motori di conoscenza.

Per tutti questi motivi non posso non condividere con voi il piacere di quel paio d'ore trascorse sabato sera in un teatro gremito ad assistere al nuovo spettacolo di Marco Paolini dedicato alla vita e alle opere di Galileo Galilei.
Fa una certa impressione sentir parlare di fisica e astronomia, di scienza e conoscenza - e non in termini vaghi e deferenti, ma precisi e documentati - in un ambito, quello teatrale, cui sono solito associare contenuti molto diversi.

ITIS Galileo non è l'agiografia laica di un martire della scienza, non è un remake del processo brechtiano, non è la trasfigurazione al presente di un confronto ideologico, e non è neanche un viaggio nella memoria della scienza alla ricerca di una strada per il progresso, di un'etica della ricerca, o un interrogarsi sulla coscienza degli scienziati (oh sì, ci sono tutti questi aspetti, ma sono laterali rispetto al nucleo dello spettacolo).
ITIS Galileo è il racconto della vita di Galileo, incentrato sui limiti dell'uomo e sugli indubbi meriti dello scienziato, ma soprattutto sul suo porsi, quasi involontariamente, contro la visione del mondo imperante all'epoca, non per motivi ideali o ideologici, ma sostanzialmente per la curiosità e il soldo, per ambizione alla fama e necessità di conoscenza. E come al fondo di tutto non siano tanto la qualità delle motivazioni a fare la differenza, quanto piuttosto la curiosità indefessa e il lavoro quotidiano, che forniscono dati, alimentano la ricerca, producono i risultati. Galileo Galilei non è un teorico, è un pragmatico, non è un filosofo (anche se o vorrebbe tanto) ma uno scienziato, prima ancor che la scienza esista.

In un certo senso ITIS Galileo si situa all'estremità opposta del teatro di Marco Paolini rispetto ad Ausmerzen, la ricostruzione del programma eugenetico nazista presentato dall'attore in diretta televisiva un paio di settimane fa.
Il cuore pulsante di entrambi gli spettacoli sta nella lettura delle fonti, nella documentazione, nell'informazione puntuale e approfondita. Se da un parte Ausmerzen affronta l'indicibile senza tirarsi indietro e trascinando con se un mondo intero di terrore, sofferenza e raccapriccio, costringendo lo spettatore alla cognizione emotiva prima ancora che razionale dell'orrore nazista, ITIS Galileo poggia tutta la sua forza sul confronto intellettuale tra tradizione e ricerca, tra status quo e cambiamento, tra omologazione e curiosità, stemperando la quantità di dati e riferimenti con l'umanità dei protagonisti e qualche tocco farsesco ad alleggerire la messa in scena.
In una carrellata che parte da Aristotele e Tolomeo, fa tappa su Copernico, passa per Shakespeare e Tycho Brahe, giunge a Keplero, sfiorando la vita di tre papi, Paolini è abilissimo a rendere vivo il clima dell'epoca galileiana mantenendo al contempo la rappresentazione nell'ambito dello spettacolo teatrale senza sconfinare (quasi) mai nei troppo seri territori della lectio magistralis. Anche se a volte sceglie quella che a me pare la via più semplice, non rinunciando a quel paio di battute sugli scandali politici del momento, Paolini compensa questi sbandamenti con momenti di pura gioia, come la riproposizione in stile commedia dell'arte di un dialogo galileiano, o la citazione in lingua madre (la sua, di lingua madre) di altri brani dell'epoca.

Un paio d'anni fa, in coda al post dedicato a Miserabili. Io e Margaret Thatcher. scrivevo:
"Assistere a uno spettacolo di Marco Paolini è sempre un'esperienza esaltante, una sferzata di vita vera in questi tempi anche troppo artificiali, una passeggiata lungo i binari della memoria fatta con l'unico scopo di andare incontro al presente che incombe un po' più attrezzati. Una boccata di ossigeno per continuare a resistere."
Dopo ITIS Galilei non posso che confermare quanto scrivevo allora, sostituendo magari storia a memoria e chiudere queste note ringraziando Marco Paolini per aver per una volta unito scienza e lettere, e averle riportate al centro del palcoscenico.
Un dubbio però mi rimane, Che anche Marco Paolini frequenti World of Warcraft? Lo so, anche solo accennarvi sa di sacrilego, però vedere sul palco l'attore interpretare il Mazzoleni (l'artigiano che costruisce a Galileo il suo cannone occhiale) mi ha ricordato il mio troll all'opera con i suoi strumenti e le sue pelli. Chissà…

04 febbraio 2011

In edicola a febbraio


Picture by Iguana Jo.
Visti i titoli proposti segnalo ai passanti le uscite di Urania e dintorni di questo mese, che promettono tutte molto molto bene.

Su Urania esce la prima parte dell'antologico Storie del crepuscolo del mondo, raccolta di racconti scritti da grandi nomi della fantascienza internazionale per rendere omaggio alla Terra morente di Jack Vance. Qualche tempo fa Davide Mana ha parlato molto bene dell'edizione originale di questo volume sul suo blog. Non sono un fan di Vance, ma questo volume mi incuriosisce.

Su Urania Collezione viene proposta invece una nuova edizione di Pace eterna di Joe Haldeman. L'uscita di un romanzo del 1997 in una collana che è solita proporre romanzi e racconti decisamente più datati è decisamente curiosa. D'altra parte è apprezzabile che questo romanzo sia stato finalmente ritradotto, visto che la sua prima edizione italiana, in un'Urania di qualche anno fa, è passata alla storia come una delle peggiori traduzioni mai rifilate da un editore italiano al suo pubblico.

E infine, in un'Urania Millemondi dedicato in toto a Michael Swanwick, esce finalmente, dopo anni di attesa, The Iron Dragon’s Daugther, che viene proposto in accoppiata con The Dragon of Babel.
Il primo dei due romanzi, già edito in Italia come Cuore d'Acciaio è introvabile da tempo. Se ne attendeva la riproposta - più volte annunciata - già da un paio d'anni.
Io lessi a suo tempo, in un vecchio Isaac Asimov Science Fiction Magazine, Ferro freddo, cuore d’acciaio (Cold Iron) il romanzo breve di cui Cuore d'Acciaio è la versione più lunga, e ne rimasi entusiasta.
Il Millemondi si intitola I draghi del ferro e del fuoco.

Attenzione: i volumi qui sopra sono Urania ed escono in edicola. Con l'eccezione del Millemondi che dovrebbe sopravvivere per almeno un paio di mesi, tra 30 giorni non li trovate più,

02 febbraio 2011

The Green Hornet


Originally uploaded by Brechtbug.
Devo essere io che ormai ho perso il giro, o forse son solo troppo vecchio per 'ste cose, ma qualcuno mi dovrebbe spiegare che senso ha un film come The Green Hornet.
O meglio.
Ripartiamo.

The Green Hornet è un film esplosivo. È divertente, scatenato, spettacolare.
C'è un supereroe cazzone, una spalla geniale, una bionda tutta testa e un cattivo cattivissimo e spassosissimo.
C'è il tocco di Michel Gondry e si vede, magari poco, ma si vede.
C'è tutto quel che serve per passare un paio d'ore scanzonate che, effettivamente, passano.

Ma allora perché non posso dire di essere soddisfatto della visione? E cazzo, accontentiamoci, no?
No.

Perché come sempre più spesso accade con 'sti blockbuster hollywoodiani, specie quando sono affidati a nomi di un certo peso (e quello di Gondry per me pesa moltissimo) promettono molto di più di quello che poi sono in grado di mantenere e quindi deludono molto più di quanto sarebbe lecito attendersi.
Perché quando chiami un regista come Michel Gondry - sì, proprio il Michel Gondry che ha girato The Eternal Sunshine of the Spotless Mind - ti aspetti un'attenzione alla narrazione superiore alla media, ti aspetti un tocco registico d'eccezione, ti aspetti effetti speciali come mai prima.
Guardate i suoi film precedenti. Anche senza considerare il capolavoro citato sopra, perfino nei lavori meno riusciti, addirittura nei suoi video musicali, c'era un qualcosa che te lo faceva riconoscere immediatamente.
Questo qualcosa era un approccio pseudo-artigianale alla gestione tecnico-visiva della messa in scena e un attenzione particolare a certi aspetti del racconto: protagonisti genericamente sfigati, con la maschera da pagliaccio triste sempre indosso, ma con una vitaità che non ti aspetteresti, alle prese con il tentativo di riscrivere la storia, la loro storia (o vittime del tentativo di riscriverla) e poi dolcezza e contenuta disperazione, una visione perennemente distorta, strabica, con un occhio puntato al passato e l'altro a scrutare il futuro.
Sono questi i temi e le sensazioni che Gondry è capace di evocare. Sono queste le caratteristiche che me lo hanno fatto apprezzare e che distinguono i suoi film dalla massa.

In The Green Hornet tutti gli aspetti fondanti la cinematografia di Gondry ci sono, certo, ma appaiono diluiti e sfruttati in modo accessorio e inutile, arrivando a definire personaggi e situazioni in modo contraddittorio.
Vedi per esempio quella che in potenza è il tema più dirompente del film, ovvero la caratterizzazione delle dinamiche della coppia di eroi protagonisti della vicenda: tanto Green Hornet è ignorante, infantile e inetto, quanto Kato è geniale, efficiente e letale.
Il primo è la facciata mediatica, superficiale e piaciona, il secondo l'aspetto razionale, umile e operaio. Il primo parla, il secondo fa. Con queste premesse la schizofrenia del rapporto tra i due è evidente, come anche il sottotesto socio-politico dei rapporti di classe, di razza, (e di sesso quando entra in gioco il personaggio di Cameron Diaz) che contraddistingue ogni aspetto della loro relazione. Su questi contrasti gioca - molto bene - tutta la prima parte del film, gettando le fondamenta di quello che avrebbe potuto rappresentare un'effettiva novità, almeno per questo genere di pellicola.
Poi qualcuno ai piani alti della produzione deve aver fatto la telefonata decisiva, e da metà film in avanti avviene quel che mai mi sarei aspettato (mai? vabbé…): tutti gli scogli potenzialmente sovversivi della pellicola vengono limati. Da lì in avanti si assiste impotenti alla progressiva normalizzazione di ogni asperità narrativa, fino al tripudio di quei sedili eiettabili (chi ha visto il film capirà) che sono la pietra tombale di ogni velleità il film potesse avere.
Più sopra dicevamo del tocco gondryano che è presente ed evidente solo in pochissime sezioni del film a rappresentare quasi una parentesi messa lì per accontentare i fan (e quei brevi intervalli sono effettivamente uno sfoggio di tecnica che non lascia indifferente), a meno di non considerare tale anche la scelta delle auto (tutte rigorosamente vintage) o la patina di tecnologia analogica che riveste la pellicola. Dettagli che per quanto apprezzabili non sono sufficienti a infondere al film quella personalità che lo farebbe spiccare dalla massa di prodotti analoghi.
In effetti in The Green Hornet più che la messa in scena si fanno apprezzare la performance di Christoph Waltz, che tratteggia da par suo un cattivo tanto improbabile quanto micidiale e alcune invenzioni che ripropongono, con la tecnologia odierna, quel genere di scene d'azione che mi son sembrate arrivare dritte dritte dagli spy movie anni '60. Ci sono poi diversi momenti divertenti, e la commedia tiene botta fino alla fine. In fondo, se il giudizio complessivo non è del tutto positivo, è solo perché mi attendevo qualcosa di più. Evidentemente sono le aspettative che mi fregano.

Ultima nota per la farsa del 3D (per non chiamarla vera e propria truffa), che in questo film sarà stato applicato a un 10% delle scene, e che obbliga lo spettatore alla visione oscurata (effetto occhiali da sole) di tutto il resto della pellicola. Come si fa a far capire a 'sti geni del marketing che è davvero molto probabile che mi rivedranno al cinema per ripetere un'esperienza simile?