31 maggio 2011

Letture. Fantascienza che fu: Cantata spaziale, di Raphael A. Lafferty


Foto di Iguana Jo.

Ho ripreso in mano un libro di Raphael A. Lafferty parecchi anni dopo l'ultima volta, in seguito alla discussione nata in calce al post che Elvezio Sciallis ha dedicato a Thomas Disch (per capire come da quest'ultimo si sia arrivati a Lafferty… beh, lascio al passante curioso il piacere della scoperta. …e sì, ho poi letto anche Gomorra e dintorni, ma se ne riparla tra qualche tempo).

Sebbene Raphael A. Lafferty non sia uno di quegli scrittori popolari che piacciono a grandi e piccini, la sua originalità e il suo talento compositivo sono fuori discussione. La scrittura di Lafferty è di quelle che sgomitano e spingono per farsi notare, tanto appare più esuberante e complessa rispetto a quella di tanti suoi colleghi contemporanei. Per lo stesso motivo il suo nome è più conosciuto tra chi frequenta le zone più esterne della galassia fantascientifica che non tra i fan dell'avventura spaziale tout court.

Detto questo tocca però aggiungere che a me Raphael A. Lafferty non ha mai entusiasmato. Certo, ha scritto racconti notevoli e i suoi testi si leggono comunque volentieri, ma ho sempre trovato il suo approccio al genere un po' troppo freddo e concettuale per i miei gusti.
Vedi per esempio questo Cantata Spaziale.
Il romanzo d'esordio di Lafferty, pubblicato nel 1968, offre al lettore una riscrittura in chiave yankee delle avventure di Ulisse nel suo viaggio verso casa. Se la preparazione letteraria di Lafferty è fuori discussione, e i riferimenti omerici gustosi, il suo svuotare l'Odissea di ogni contenuto epico, per attualizzarla e riportarla nei territori della fantascienza popolare, non mi ha convinto a causa della distanza che costantemente separa il lettore da avvenimenti e personaggi. La mia incapacità di partecipare e divertirmi alle imprese del capitano Roadstrum e della sua ciurma, in costante e meccanica progressione da un ostacolo all'altro, in una galassia che pare una succursale di Disneyland per quanto artefatta e artificiale appare, è sintomatica della mia mancanza di sintonia con la scrittura di Lafferty più ancora che con il tema del romanzo. (Del resto Silverlock di John Myers Myers, che è un romanzo che si muove negli stessi ambiti di riscoperta e riscrittura dei miti letterari occidentali mi aveva invece lasciato decisamente soddisfatto.)
Nella scrittura di Lafferty si percepisce forte il divertimento dell'autore e lo sforzo di svuotare di ogni seriosità il testo, ma con lo scorrere fluido e scanzonato dell'avventura quel che rimane al lettore è un senso di vacuità che risulta in qualche modo fuori registro in una storia che nel suo mantenersi costantemente sopra le righe dovrebbe risultare decisamente più sanguigna e dirompente. Nel corso della lettura di Cantata Spaziale capita di sorridere, ma si fa davvero fatica ad appassionarsi e da un autore osannato come Raphael A. Lafferty mi aspettavo qualcosina di più.

30 maggio 2011

The Revolution Will Not Be Televised

Ho scoperto solo ora che venerdì scorso è scomparso Gil Scott Heron.

Questa è per ricordarlo:




You will not be able to stay home, brother.
You will not be able to plug in, turn on and cop out.
You will not be able to lose yourself on skag and skip,
Skip out for beer during commercials,
Because the revolution will not be televised.

The revolution will not be televised.
The revolution will not be brought to you by Xerox
In 4 parts without commercial interruptions.
The revolution will not show you pictures of Nixon
blowing a bugle and leading a charge by John
Mitchell, General Abrams and Spiro Agnew to eat
hog maws confiscated from a Harlem sanctuary.
The revolution will not be televised.

The revolution will not be brought to you by the
Schaefer Award Theatre and will not star Natalie
Woods and Steve McQueen or Bullwinkle and Julia.
The revolution will not give your mouth sex appeal.
The revolution will not get rid of the nubs.
The revolution will not make you look five pounds
thinner, because the revolution will not be televised, Brother.

There will be no pictures of you and Willie May
pushing that shopping cart down the block on the dead run,
or trying to slide that color television into a stolen ambulance.
NBC will not be able predict the winner at 8:32
or report from 29 districts.
The revolution will not be televised.

There will be no pictures of pigs shooting down
brothers in the instant replay.
There will be no pictures of pigs shooting down
brothers in the instant replay.
There will be no pictures of Whitney Young being
run out of Harlem on a rail with a brand new process.
There will be no slow motion or still life of Roy
Wilkens strolling through Watts in a Red, Black and
Green liberation jumpsuit that he had been saving
For just the proper occasion.

Green Acres, The Beverly Hillbillies, and Hooterville
Junction will no longer be so damned relevant, and
women will not care if Dick finally gets down with
Jane on Search for Tomorrow because Black people
will be in the street looking for a brighter day.
The revolution will not be televised.

There will be no highlights on the eleven o'clock
news and no pictures of hairy armed women
liberationists and Jackie Onassis blowing her nose.
The theme song will not be written by Jim Webb,
Francis Scott Key, nor sung by Glen Campbell, Tom
Jones, Johnny Cash, Englebert Humperdink, or the Rare Earth.
The revolution will not be televised.

The revolution will not be right back after a message
bbout a white tornado, white lightning, or white people.
You will not have to worry about a dove in your
bedroom, a tiger in your tank, or the giant in your toilet bowl.
The revolution will not go better with Coke.
The revolution will not fight the germs that may cause bad breath.
The revolution will put you in the driver's seat.

The revolution will not be televised, will not be televised,
will not be televised, will not be televised.
The revolution will be no re-run brothers;
The revolution will be live.


Gil Scott Heron (1949-2011) R.I.P.

26 maggio 2011

Nel frattempo, in giro per la rete…


Foto di Iguana Jo.

Vi segnalo un paio di iniziative nate in rete negli ultimi tempi che mi sembrano molto interessanti vuoi per l'approccio adottato dai relativi promotori, vuoi per l'entusiasmo che son state capace di suscitare.

Mi riferisco all'esperimento di scrittura collettiva nato su Strategie evolutive che sta per vedere la luce su un blog dedicato (qui il primo passo, il secondo e il terzo… e sì, nel caso ve lo steste chiedendo potrei arrivare fino al dodicesimo, ma, ehi!… c'è tempo!).
Il titolo del progetto è Sick Building Syndrome. Il racconto a più mani partirà nei prossimi giorni per poi proseguire per tutta l'estate.
Io non scrivo narrativa, ma l'entusiasmo e la leggerezza (non saprei come meglio definire quel misto di "facciamo le cose seriamente senza prenderci troppo sul serio" e di giocosità che circonda l'iniziativa) del progetto mi hanno coinvolto. Vedremo come andrà a finire…

L'altra segnalazione è per la GeLotteria che Gelo Stellato si è inventato sul suo blog. Le regole del gioco sono semplicissime: chi decide di iscriversi mette in palio un libro che insieme ai libri degli altri partecipanti verrà estratto a sorte e quindi spedito al fortunato vincitore.
Un'idea semplice e geniale che per funzionare ha solo bisogno della disponibilità dei partecipanti a rispettare l'impegno di farsi un giretto in posta per spedire il libro GeLotterizzato.
Io ho messo in palio una strana coppia di libri: L'uomo a rovescio di Fred Vargas e L'inferno degli specchi di Edogawa Ranpo.
Per iscriversi c'è tempo fino al 31 maggio.

A queste due segnalazioni aggiungo anche il mini-concorso per la copertina del volume Ucronie Impure indetto da Alex McNab Girola nel suo blog sull'orlo del mondo.
Io partecipo con una copertina meravigliosa (ovviamente!) che però non vi posso far vedere per non influenzare la scelta popolare.
Se volete contribuire con una vostra proposta dovreste avere ancora qualche giorno di tempo.

23 maggio 2011

Letture: Angeli spezzati, di Richard K. Morgan


Foto di Iguana Jo.

Prendete uno scenario di guerra planetaria, una galassia governata da megacorporazioni, eserciti privati a gogò e una rivoluzione che segna il passo. Aggiungete i marziani (no, non sto scherzando!) e la caccia a un misterioso artefatto alieno. Frullate il tutto con un plot avvincente e guarnite con il protagonista più figo dell'universo. Il risultato sarà un ritratto plausibile di Angeli spezzati.

Con queste premesse ci sono tutti gli estremi per una lettura godibile, ma è difficile pensare che un romanzo simile valga più di qualche ora di divertimento. E invece…

Richard K. Morgan non si limita a sfiorare la superficie delle cose, non distoglie lo sguardo dagli aspetti più scomodi che la sua ambientazione si porta dietro, e nonostante tutto va dritto come un treno, non rallentando mai, nemmeno per un secondo, il ritmo dell'azione.
Grazie a una scrittura calibrata al millimetro riesce a infondere al suo romanzo una profondità inusuale per il tipo di narrazione adottata. È vero, in Angeli spezzati ci sono marziani, esplosioni atomiche, portali stellari e tute potenziate, ma il fuoco della vicenda è costantemente puntato sull'umanità dei protagonisti, sul realismo con cui sono rese le loro reazioni di fronte alla brutalità delle circostanze. Nel corso della lettura non è affatto difficile immaginare scenari molto più vicini all'esperienza del lettore, tanto per l'ambiguità morale dei personaggi, quanto per il clima da conflitto permanente che permea costantemente il romanzo.

Angeli spezzati è il secondo romanzo di Richard K. Morgan che racconta le gesta di Takeshi Kovacs, mercenario potenziato, abitatore di molti corpi, passato ingombrante ed esperienza da vendere.
Takeshi Kovacs è il protagonista perfetto, memorabile come pochi altri personaggi (penso all'uomo conosciuto come Zakalwe, penso ad Ashraf Bey, ma penso anche - soprattutto? - al padre putativo di questo cavaliere futuristico con più di un'ombra ad infangare una corazza perennemente lisa: quel Philip Marlowe di cui Takeshi Kovacs è a tutti gli effetti una versione fantascientifica).
Ho conosciuto Takeshi Kovacs in Bay City (innocuo titolo italiano affibbiato al ben più significativo Altered Carbon). Quel romanzo, esordio narrativo di Morgan, mi era piaciuto per il brillante setting fantascientifico di una storia dal forte sapore nostalgico, caratteristica che però era anche il più grosso limite del volume. Dal mio punto di vista infatti Bay City era troppo legato all'immaginario noir di derivazione chandleriana per brillare di luce propria, e per quanto questa sorta di riscrittura fantascientifica de Il grande sonno sia oltremodo godibile, non mi aveva entusiasmato. Pur con tutti i limiti del romanzo Takeshi Kovacs si faceva però ricordare.

Son passati gli anni. Quando circa cinque anni fa è uscita la versione italiana di Angeli spezzati, tradotta, come il resto della produzione di Morgan, da Vittorio Curtoni, il prezzo del volume, unito al ricordo del romanzo precedente, mi hanno tenuto lontano dall'acquisto. Un paio d'anni dopo era stata annunciata l'edizione economica del romanzo, e già me lo pregustavo. Poi qualcosa dev'essere andato storto, perché se sono stati pubblicati altre due traduzioni di romanzi di Morgan, de l'edizione economica di Angeli spezzati si sono perse le tracce. Nel frattempo è arrivata Amazon, che per assaltare il mercato nostrano ha attuato una politica di sconti molto aggressiva, Il risultato immediato è che mi son finalmente portato a casa tutti i romanzi di Morgan editi in italiano ad un prezzo accettabile.

Ritrovare Kovacs è stato un piacere. Piacere ancora maggiore riscoprirlo alle prese con una vicenda che lo smarca completamente dal background noir del primo romanzo per calarlo in uno scenario che più fantascientifico di così fai fatica.
Il godimento è arrivato poi ai massimi livelli quando mi son reso conto della maestria di Richard K. Morgan nel condurre la sua storia in porto. Quel che nelle mani di un autore meno dotato si sarebbe risolto in una sequela di momenti infodumpeschi intervallati da esplosioni d'azione, viene invece gestito in modo estremamente talentuoso dall'autore inglese, che pur limitando il punto di vista a quello del suo protagonista (tutto il romanzo è narrato in prima persona) riesce a offrire al lettore un quadro magnifico sia del background storico/galattico che di quello fanta/tecnologico in cui si muove Kovacs, all'interno di una vicenda in cui non si lesinano colpi di scena, riflessioni politiche, problematiche etico/morali. In altre parole, Angeli spezzati è la fantascienza che preferisco al meglio delle sue potenzialità.

Mi sono spesso lamentato della mancanza di testi fantascientifici di qualche interesse nelle librerie nostrane. Di come il meglio di quanto prodotto all'estero faccia fatica ad arrivare sui nostri scaffali. Non so quale strano destino editoriale abbia portato alla traduzione dei romanzi di Morgan, ma quale che sia il motivo rimane il fatto che Angeli spezzati rappresenti al momento quanto di meglio è dato di leggere in italiano in ambito fantascientifico. Sappiatelo.

18 maggio 2011

Festival Internazionale Rugby Old a Villorba

Nell'attesa di riprendere la normale programmazione del blog (ahahah!) ecco quel che ho fatto nel fine settimana:













Sono parecchio orgoglioso di 'ste foto, ma ancor di più della nostra partecipazione al torneo di Villorba (ehi, stavo per fare la mia prima meta!). Abbiamo giocato un gran bel rugby e credo che da quelle parti si ricorderanno anche del nostro terzo tempo.

Altre foto della giornata le potete trovare qui.

10 maggio 2011

Che fine ha fatto Sean Fentress?

C'è una domanda rimasta senza risposta alla fine di Source Code.

Quel riflesso finale nel Fagiolo di Chicago è il suggello definitivo alle vicissitudini del capitano Colter Stevens. A quel punto è però lecito chiedersi dove sia finito Sean Fentress: è lì, certo. Ma siamo sicuri ci sia davvero?

Prima di proseguire è meglio avvertire i passanti che le note qui di seguito conterranno inevitabilmente qualche spoiler su quanto succede nel film. Se non avete ancora visto Source Code vi consiglio di interrompere la lettura e tornare magari dopo la visione, altrimenti potete sempre dare un'occhiata al post precedente.



Source Code è un film meraviglioso per come riesce ad integrare concetti complessi derivati dalla fisica quantistica (e poco importa se questi siano veri e dimostrabili*, quel che conta è che siano narrativamente efficaci) ad un plot appassionante. Quando tutti gli ingranaggi fanno clic, quando alla fine del film ti rendi conto che sì, quel che sospetti è vero, a ogni riavvio del bioware denominato Suorce Code si crea un nuovo universo, beh… ripensi a quel che hai visto e ti rendi conto dell'abilità (e della furbizia) di regista e sceneggiatori. Le unità di otto minuti in cui è strutturata l'azione non sono l'inizio e la fine della realtà virtuale vissuta da Colter Stevens, quanto piuttosto possibilità di nuove realtà - opportunamente mascherate da esplosioni e morti ben calibrate - che sbocciano da ogni variazione nella sequenza temporale di fatti e reazioni.
(* Il substrato teorico è comunque consistente. Vedi per esempio la pagina di Wikipedia dedicata al Multiverso.).

Trovare parenti illustri a questo tipo di narrazione è un giochino divertente. C'è chi, al solito, ci vede il fantasma di Dick (a me pare improbabile, vuoi per motivi anagrafici: Duncan Jones ha quarant'anni, l'età giusta per essere cresciuto a pane e cyberpunk, vuoi proprio per le tematiche affrontate dal film). Io tendo a vederci Egan ad ogni pié sospinto (e in effetti la reazione del pubblico generalista a un film del genere è simile a quella di molti lettori non avvezzi alla fantascienza dopo aver provato l'autore australiano), con un'attenzione a motivazioni e umanità dei personaggi che mi piace associare ad altri autori che leggo sempre volentieri (tipo Ian McDonald, tanto per non fare nomi).
In effetti uno degli aspetti migliori del film di Duncan Jones sta nella sua capacità di infondere personalità a personaggi che a primo acchito paiono provenire dritti dritti dalla fabbrica dei cliché. Dal veterano della guerra afgana, alla fanciulla sul treno, dall'ufficiale addetta all'interfaccia, allo scienziato zoppicante, fino al terrorista misterioso. Esclusi i protagonisti ognuno di questi personaggi ha pochissimi istanti per farsi conoscere e ricordare e per assolvere a una qualche funzione narrativa superiore, ma tutti rimangono impressi nella memoria: l'ufficiale per come si convince a mettere avanti l'umanità residua del capitano rispetto alla sua funzione codificata, lo scienziato per come rappresenta la scienza tutta utilità, nessuna coscienza; il terrorista, esemplare ed inquietante esempio di nerd come potenziale nemico interno.

Source Code è ricchissimo di questi sottotesti (i pregiudizi smascherati; scelta individuale vs bene collettivo; la ricorsività che da incubo si trasforma in speranza; la negazione dell'effetto videogame, con la morte che non smette mai di far male) a volta appena accennati, altre volte sottolineati per poi essere smentiti, o pronti a rincorrersi a vicenda per poi diventare dominanti. Come ad esempio diviene fondamentale nell'economia della vicenda il rapporto tra il capitano Colter Stevens, nelle vesti del pendolare Sean Fentress, con la sua compagna di viaggio.
Jones si dimostra molto abile nel passo scelto per la progressione della loro relazione. Relazione che ha tutta l'aria dell'obbligatoria storia d'amore, canonica per ogni action movie che si rispetti, ma che qui ha invece il compito di portare il protagonista a quella scelta, e alla conseguente scoperta, che si rivelerà definitiva per il destino del suo personaggio, regalando nel frattempo allo spettatore momenti di squisita dolcezza (quel fermo immagine, accidenti!).

Ma preferisco fermarmi qui, che per quanto sia divertente mettersi ad esplorare le dinamiche sotterranee di un film, arriva sempre il momento chiedersi se e quanto di quel che si è percepito al cinema sia frutto del lavoro degli autori o se invece la nostra visione rispecchi invece i nostri desideri e la nostra esperienza. Col rischio di arrivare a porsi una domanda come quella iniziale che fa ripartire da capo tutto il ragionamento.
Che fine ha fatto Sean Fentress?

09 maggio 2011

Source Code


Vi avverto subito. La tentazione di definire capolavoro Source Code è fortissima, che a caldo, l'ho visto sabato, mi verrebbe da citare il film di Duncan Jones come il miglior esempio di cinema fantascientifico degli ultimi dieci anni.

Source Code parte con una situazione analoga a quella di Moon: un uomo solo, intrappolato in un meccanismo incomprensibile, manovrato da poteri al di fuori del suo controllo, in bilico tra abitudine all'obbedienza. tentazioni solipsistiche e paranoia terminale.
Se le premesse sono simili, lo svolgimento prende direzioni diverse. In Moon il protagonista era costretto dalla situazione al costante confronto con se stesso, con l'unica possibile alternativa della comunicazione con l'intelligenza artificiale che controlla la base lunare. In Source Code il capitano Colter Stevens (un ottimo Jake Gillenhall) non ha altra scelta che il contatto con l'altro, intrappolato com'è tra le priorità della sua missione, la ricerca di un senso a quel che sta succedendo, la necessità di convincere i suoi controllori delle sue esigenze.
Nella gestione della progressione della vicenda si percepisce tutto il talento del regista. Mantenere la coerenza del plot; tenere alto il ritmo nonostante le ripetizioni obbligatorie; giocare abilmente con gli standard del cinema d'azione per giungere a qualcosa di diverso, utilizzando bombe a tempo e terrorismo e conti alla rovescia come strumenti narrativi e non come fine ultimo del racconto; il progressivo disvelamento della verità sottesa alla vicenda e di nuovo la coerenza verificabile a ritroso di quanto visto con quanto rivelato.
Duncan Jones si scopre magnifico creatore di universi, capace di mescolare i temi più diversi (la già citata minaccia terrorista con conseguente corsa contro il tempo, il subplot romantico, la cornice fantascientifica) svolgendo ognuno di essi fino al degno finale, creando una conclusione multipla in cui ogni subfinale è necessario al finale successivo, con una progressiva accentuazione della complessità della visione, fino alle sue estreme conseguenze.

L'unico limite della pellicola, confermatomi da amici che non sono soliti frequentare il genere, è paradossalmente proprio il tasso di ottima fantascienza presente in ogni istante del film. In effetti la densità del contenuto fantascientifico rischia di rendere piuttosto complicato al pubblico generalista il districarsi tra tutti quegli elementi che sono ormai parte integrante della letteratura di genere (bioware, fisica quantistica, universi paralleli). Specie quando quegli stessi elementi non sono, come spesso accade, parole buttate lì a far scena, ma contribuiscono attivamente a reggere il telaio narrativo del film.

In questo senso Source Code riesce in quello che nè MatrixInception, due film in qualche modo assimilabili a questo, son stati capaci di realizzare: raccontare una storia complessa, solida e comprensibile senza utilizzare gli effetti speciali come armi di distrazione di massa. Focalizzando la messa in scena su personaggi e situazioni sempre coerenti con le premesse del progetto. Puntando sulla forza dell'idea di fondo, su un'ottima sceneggiatura che non cerca facili compromessi, rendendo l'opera comprensibile ai più diversi livelli. Utilizzando la tecnologia come risorsa narrativa, non come mero tappabuchi scacciapensieri.

Ci si domanda spesso che fine abbia fatto il buon cinema di fantascienza. Dove siano finite le idee, l'immaginazione, il talento. Con soli due film all'attivo Duncan Jones ha già abbondantemente risposto alla domanda.
Se amate la fantascienza dovete vedere Source Code.

04 maggio 2011

Letture. Fantascienza che fu: Tschai, di Jack Vance

Illustrazione di Jeff Jones per la copertina di The Dirdir, terzo volume del ciclo di Tschai

Quando si parla di fantascienza, quella di una volta, quella vera, Jack Vance è uno di quei nomi che inevitabilmente viene citato dall'appassionato del caso come lettura imprescindibile. Io invece Jack Vance lo conosco molto poco. Prima di Tschai ho letto solo una manciata dei suoi racconti (quelli raccolti nelle varie antologie della meglio della fantascienza, dai volumazzi della Nord che raccolgono i premi Hugo a quelli Bompiani firmati Asimov che propongono anno per anno la produzione più significativa dai 1939 al 1959, agli Urania dedicati ai Grand Master) e i primi volumi del ciclo dei Principi Demoni.
Se dei racconti ho nel complesso ricordi positivi, quel paio di romanzi mi aveva lasciato perlomeno perplesso (all'epoca della lettura mi chiedevo: "Ma che ci trovano gli ammiratori di Vance in questo ciclo? La domanda non è oziosa: mi piacerebbe proprio capire cosa c'è di così notevole in un personaggio come il protagonista, in una galassia in cui sembra ci abitino giusto le 10 persone che si incontrano, in una serie di cattivi che definirli da operetta sarebbe fargli un complimento. Poi è vero che i romanzi si leggono agevolmente, ma se devo dire che mi sono piaciuti... forse come documento di un altro tempo, non certo come romanzi belli senza condizioni.")
Ma Vance è un nome importante per la definizione del genere per come lo conosciamo ora, uno di quelli che se frequenti la fantascienza non puoi non conoscere.

Eccoci dunque a Tschai, il volume che raccoglie i quattro romanzi che compongono il ciclo delle avventure del terrestre Adam Reith sull'omonimo pianeta. Pubblicati tra il 1968 e il 1970 i quattro romanzi sono un esempio perfetto di quella che era la fantascienza popolare che andava per la maggiore all'epoca. E beh… diciamolo, sono anche uno specchio piuttosto fedele di quello spirito conservatore caratteristico di molta letteratura fantascientifica che è sempre corso parallelo alla spinta progressista verso l'esplorazione del futuro che viene solitamente associata al genere.
Le quattro parti che compongono il volume raccontano delle peripezie di Adam Reith, unico sopravvissuto di una spedizione di esplorazione terrestre, nei suoi tentativi di recuperare una nave spaziale che lo riporti a casa, liberando nel frattempo la popolazione di origine umana sottomessa e succube dei loro padroni alieni. Ognuno dei quattro romanzi vede il confronto tra il pragmatismo e l'intelligenza yankee del protagonista e ognuna delle quatto razze aliene che si sono spartite il pianeta Tschai. Lo schema dei rapporti tra terrestre e alieni è molto semplice: l'unico alieno buono è l'alieno morto.

In effetti quel che mi ha sorpreso durante la lettura è il tasso di violenza che accompagna il procedere dell'avventura. Violenza del tutto indolore e priva della pur minima conseguenza morale. Violenza ingenua e incosciente. Violenza che non avevo mai considerato in questi termini nelle mie precedenti esperienze con la fantascienza classica.
Fantascienza classica che come spesso accade io trovo, ahimè, molto più interessante per quello che fa inconsapevolmente trasparire dello spirito del tempo che non per i contenuti letterari che porta con sé.

Non che Tschai sia lettura noiosa o pesante. Tutt'altro: le invenzioni e le trovate si susseguono pagina dopo pagina e la tensione avventurosa è costante. Per quanto la trama non sia eccessivamente complessa, tiene comunque avvinto il lettore.
L'unica precauzione da adottare avvicinandosi al romanzo è quella di tarare aspettative e speculazioni immaginando quali potessero essere quelle di un adolescente americano degli anni '60. Il rischio altrimenti è di trovare Tschai insopportabile, vuoi per il tasso di testosterone presente, vuoi per la prospettiva ristretta che il tour di Vance propone del pianeta.