Cosa vediamo del mondo che ci circonda? Quanti segnali ignoriamo muovendoci per le strade delle nostre città? Quand'è successo che abbiamo smesso di
guardare il panorama urbano che racchiude l'esistenza della maggior parte di noi? Perché certi dettagli non escono mai dalla periferia della nostra visione per assumere coerenza e sostanza?
China Miéville da corpo narrativo a queste domande e con
La città e la città tenta una difficile indagine speculativa sulla complessità della vita urbana: grazie agli strumenti della narrativa di genere porta all'eccesso le particolarità ambientali in cui colloca la sua storia per evidenziare come i comportamenti individuali siano vincolati alle convenzioni sociali e alla deriva storica che le sottende, riflettendo al contempo su controllo, sorveglianza e punizione, sulla gestione del potere, su rivoluzione ed educazione.
La città e la città ha tutte le apparenze del romanzo giallo più tradizionale: una fanciulla sconosciuta viene trovata morta in un quartiere periferico della città di Besźel e Tadyur Borlù, poliziotto chiamato a indagare, si trova presto incastrato in una trama più grande di lui. Il protagonista del romanzo non si perde d'animo e grazie a sagacia, fortuna e buone conoscenze riesce a dipanare la complicata matassa, lasciando per strada più di una convinzione e ritrovandosi all'ultima pagina più solo che mai, ma con qualche certezza in più.
Ma se la scatola letteraria è un cliché, ben più originale e affascinante è il cuore del romanzo, che batte il ritmo asincrono delle due città in cui si svolge l'azione: Besźel e Ul Qoma.
Situate in una non meglio precisata regione del sud-est europeo, Besźel e Ul Qoma sono divise in tutto (dalla gastronomia alla forma di governo, dalla lingua all'architettura), ma condividono lo stesso territorio, sovrapponendosi e condividendo la morfologia urbana in cui si sono evolute. I cittadini delle due città vivono fianco a fianco, ma secoli di storia separata li hanno portati a diventare maestri dell'arte di disvedere, rendendo di fatto l'altra città, i suoi abitanti, la sua cultura e le sue costruzioni, invisibili a chi dovesse per caso posare lo sguardo sul suolo straniero. A dare coerenza all'invenzione e rendere di fatto tassativo l'obbligo a disvedere c'è una terza entità a sorvegliare il comportamento di tutti i residenti: la Violazione, un ente apparentemente inconoscibile, dotato di misteriosi poteri di intervento e punizione.
China Miéville gioca con l'incongruenza topologica di questa doppia città affrontandone i vari aspetti, dai più quotidiani (come sopravvivere al traffico urbano), ai più esoterici (i bambini considerati come veicoli d'infezione culturale), riuscendo nell'arduo compito di rendere credibile agli occhi del lettore la realtà impossibile del romanzo. Ma Mieville non si ferma alla descrizione degli aspetti pratici della vita in città e riflette sulle implicazioni politiche e sociali di una (anzi, due) comunità che si trovano a dover convivere con le
solite divisioni (di ceto, di religione, di etnia) all'interno di una frattura che riflette, amplificando, tutte le tensioni che una situazione di convivenza coatta porta con sé. Esemplari in questo senso sono le pagine che l'autore dedica alle organizzazioni rivoluzionarie di vario colore e ai loro tentativi di unificazione egualitaria o di dominio politico dell'entità Besźel-Ul Qoma. In effetti i personaggi che bazzicano questi ambienti oscuri e settari, dominati dalla paranoia eppur vivi e vitali nel perseguire un loro scopo, sono forse quelli meglio tratteggiati dall'autore, che con quel misto di indulgenza e pessimismo, affetto e rassegnazione, riesce a rendere bene l'idea di una vita ai margini di un regime allergico al cambiamento.
Se arrivati a fine lettura questi personaggi secondari rimangono più impressi nella memoria del lettore degli stessi protagonisti del romanzo, è però evidente che qualcosa ne
La città e la città non funziona del tutto.
A mio avviso il difetto principale del testo di
China Miéville è lo stesso riscontrato nel mio
precedente incontro con l'autore inglese: la mancanza di personalità dei suoi protagonisti.
Tadyur Borlù non ha nulla che lo faccia risaltare, che permetta di metterne a fuoco una qualche caratteristica peculiare, o che almeno lo distingua quanto Besźel-Ul Qoma è distinguibile dalle centinaia di panorami urbani già incrociati in precedenza. A volte si fa fin fatica a riconoscere nelle movenze e nei gusti di Borlù qualcosa che ne identifichi nazionalità e cultura, tanto i suoi tratti paiono sovrapponibili a quelli di un qualsiasi trentenne occidentale. Ed è con rammarico che tocca osservare quanto poco l'ispettore Borlù assomigli alle città che tanto si impegna a capire/conoscere/salvare.
D'altra parte, volendo parlare delle caratteristiche salienti un testo come
La città e la città, è lecito chiedersi quanto peso si debba dare a personaggi e caratterizzazioni, quando è evidente che il nucleo forte del romanzo non è singolare ma collettivo; che l'interesse del lettore (di questo lettore perlomeno) è attirato più dal racconto degli spazi comuni, con le loro intersezioni, divisioni e sovrapposizioni, che dall'esplorazione dello spazio individuale del protagonista; che il mistero e la meraviglia del vivere in Beszel - Ul Qoma è certo più intrigante di qualunque combinazione affettiva possa legare i personaggi che si incontrano nel corso della lettura.
Dopotutto è facile capire come
La città e la città avesse tutte le caratteristiche per catturare il mio interesse. Essendo cresciuto in una città doppia (per quanto lo sdoppiamento non sia esasperato e così ovviamente romanzesco come in Beszel - Ul Qoma) rivedere narrati, e quindi riscoprire, molti dei meccanismi di riconoscimento/negazione mostrati da Miéville è stata un'esperienza molto interessante.
L'arte di vedere e disvedere non è un'invenzione narrativa di
China Miéville. È una cosa che impariamo a fare tutti. Crescendo in un ambiente complesso privilegiamo i segnali utili, ignoriamo ciò che ci può potenzialmente disturbare, scegliamo cosa vedere. E quando tutti i segnali sono doppi, come nella mia esperienza bolzanina, è facile arrivare a ignorare molto del panorama urbano che ci circonda. E di solito è una cosa che notiamo solo quando ce ne andiamo.
Ultima nota sull'edizione italiana del volume. La scelta di Fanucci di mettere in vendita il volume a un prezzo popolare è degna di merito e va doverosamente segnalata. Anche la copertina scelta è degna di menzione. Sul fronte traduzione, che è un caratteristico punto debole nella mia esperienza con l'editore romano, le cose non vanno troppo male. Sono i dialoghi a risentire soprattutto della trasposizione in un'altra lingua, che se nell'originale inglese la resa spezzata e sincopata del testo si può dire funzionale alla narrazione, la versione italiana risulta spesso legnosa e artificiale.
Detto questo va comunque precisato che dopo aver iniziato il volume in lingua originale (grazie a Paolo per il prestito) ho preferito proseguire la lettura in italiano. L'inglese di Miéville non m'è parso particolarmente complesso, ma la lettura non mi risultava piacevole come affrontando
Charlie Stross (per quello che scrive) o
Ian McDonald (per
come lo scrive), mentre la traduzione di
Maurizio Nati fa il suo sporco mestiere senza che il lettore abbia troppo a risentirne.
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