31 gennaio 2013

Antonio Caronia (1944-2013)

Dopo la morte di Riccardo Valla speravo davvero di non dover segnalare la scomparsa di un'altra di quelle persone che han significato davvero tanto nel mio percorso di lettore. Invece, improvvisa come sempre sono queste notizie, è arrivata oggi quella della morte di Antonio Caronia, spentosi ieri a Milano all'età di 69 anni.
Non ho mai conosciuto Caronia, ma i suoi testi hanno accompagnato molte mie letture. Oltre a JG Ballard, di cui era probabilmente il maggior esperto italiano (qui potete trovare un importante saggio dedicato a Ballard pubblicato da Carmilla in occasione della scomparsa dell'autore inglese), le sue parole hanno accompagnato molte delle mie esplorazioni cyberpunk (da Mirrorshades a Forbici Vince Carta Vince Pietra esordio italiano di Ian McDonald), senza considerare le innumerevoli traduzioni che ha firmato nel corso degli anni.
Credo che il lavoro di Antonio Caronia sia stato fondamentale per dare visibilità a molta della fantascienza più complessa e dirompente comparsa in Italia. Era uno dei pochi che se ne sia occupato in maniera seria e rigorosa. Speriamo non venga dimenticato.

28 gennaio 2013

Letture: La rabbia dentro, di Lui Tasini

Disclaimer: se i post dedicati alle mie letture non sono vere e proprie recensioni, beh… questo lo sarà ancora meno. Nelle righe che seguono tenterò di convincervi riguardo la bontà de La rabbia dentro e vi inviterò a leggerlo. 
La rabbia dentro è stato scritto da Lui Tasini ("la Lui" da qui in avanti). La Lui è un'amica e - lei lo sa bene - la situazione in cui m'ha cacciato è un pochino imbarazzante. Il motivo della presenza di questo disclaimer è semplice: pararmi il culo, che qua dentro non si fanno recensioni a richiesta e si cerca di mantenere uno standard il più alto possibile riguardo la qualità delle letture e delle annotazioni che le riguardano. 
Alla fine mi direte voi se ci sarò riuscito.

© giorgio raffaelli


Oh cazzo no, un altro libro sugli anni '70…
Questa è stata la prima reazione quando mi son trovato davanti La rabbia dentro.
Del resto quella reazione non è stato l'unico ostacolo a frapporsi tra il sottoscritto e il romanzo.

Era dicembre quando ho iniziato a veder su facebook, i post di un'amica che invitava i suoi contatti a leggere la sua ultima fatica letteraria.
Ho fatto finta di niente, che quando mi capita di incrociare un libro scritto da un amico le paranoie prendono il sopravvento sulla curiosità. Il fatto è che mi son ripromesso di annotare sul blog tutte le mie letture e dovessi incappare in un libro brutto, scritto da un amico, non saprei davvero che pesci pigliare.
(Intendiamoci: non è che credessi che La rabbia dentro fosse brutto a priori, che l'unico altro libro della Lui letto qualche anno fa mi piacque parecchio. È solo che da allora sono decisamente più consapevole dei danni che possono fare due righe scritte nel modo sbagliato.)
Ma ignorare la questione non è servito a molto (non serve mai…), che tempo qualche giorno la Lui mi ha scritto per chiedermi di leggere il suo libro (minacciandomi!) e, mannaggia a me, io alla Lui non so mica resistere (c'avete poco da sogghignare voi altri, che vi sareste arresi molto prima di me!).
Mi sono quindi rassegnato al mio destino di lettore a comando e una volta finito il libro che stavo leggendo (Zia Mame, piuttosto irritante, ma ne riparleremo), ho provveduto a caricare sul reader il file del romanzo e via.



La rabbia dentro è il racconto di un inverno di fine anni '70. La voce che accompagna il lettore è quella di Lidia, diciassettenne selvatica e introversa alle prese con la scuola, la politica, l'amore. Introversa ma tutt'altro che timida, solo un pochino insicura, semmai. Selvatica perché non saprei come meglio definire la necessità della protagonista di impuntarsi e cercare da sola il proprio sentiero, che quando c'hai una famiglia allo sbando, poche certezze e un nodo alla gola che fa fatica sciogliersi, non hai molto su cui contare, tranne quella rabbia che brucia e brucia e brucia.

Mettetevi nei miei panni, in un colpo solo abbiamo gli anni '70 con tutta la loro zavorra di politica e grigiori vari, una diciassettenne alla scoperta del mondo (l'amore, il sesso, i compiti in classe!) e l'umidità fredda e nebbiosa di una città di provincia. Dietro la copertina, piuttosto evocativa - la foto è sempre dell'autrice del romanzo -  c'è tutto quel che serve a farmi fuggire a gambe levate, che dai,  'sta roba non fa per me.
E invece no. Son partito per dovere, ma son bastate poche pagine per sentirmi a casa. Merito della scrittura della Lui, di com'è capace di chiamare le cose con una voce sua, personale, con quell'apparente ingenuità che è tutto tranne che innocente. Ma le qualità del testo vanno oltre il brio e lo stile della scrittura: all'indubbia personalità dell'autrice si aggiunge un ritmo che è, per quel che mi riguarda. la vera novità nella scrittura della Lui, e che conduce il lettore nelle varie anime del romanzo senza cali di tensione e curiosità; si passa dalle pene d'amore alla violenza familiare, dal calore della politica partecipata e discussa di quegli anni alle frustrazioni personali che segnano gli schieramenti.
In effetti se c'è un motivo per leggere questo romanzo sta nella sua capacità di coivolgerti nelle avventure sentimentali di una diciasettenne, per poi colpirti con una serie di istantanee e riflessioni che no, non te le aspetteresti proprio, visto il contesto.
Nella sua versione attuale (tra qualche tempo dovrebbe arrivare la versione 2.0 riveduta e corretta) il romanzo soffre ancora di qualche  imperfezione (non tutti i dettagli sono coerenti al periodo storico in cui è ambientato, anche se i problemi riguardano giusto tre nomi tre) e a volte qualche passaggio è piuttosto sbrigativo, ma nel complesso La rabbia dentro è un ottimo romanzo. E sono disposto a scommetterci una birra (o altro beveraggio a scelta) che potrebbe piacere al 90% dei frequentatori di 'sto blog.
La rabbia dentro è per ora disponibile solo su Amazon (questo il link), e io ci credo tanto da confermare che chiunque si presenti qui senza averlo apprezzato si becca una birra alla prima occasione. (Se invece doveste apprezzarlo forse la birra ve la offre la Lui!).
Buona lettura!

23 gennaio 2013

Visioni: Cloud Atlas


"Guarda mamma, senza mani!"
È assai probabile che le mamme dei fratelli Wachowski e di Tom Tykwer siano molto orgogliose dei rispettivi figliuoli. Noi invece, che non siamo parenti, abbiamo fatto parecchia fatica a sopportare l'approccio del trio alla realizzazione di quell'assemblaggio ipertrofico di parole e immagini che risponde al nome di Cloud Atlas.
Se è vero che non ci siamo annoiati, nonostante le tre ore e passa di permanenza in sala, è altrettanto vero che ci saremmo aspettati uno spettacolo decisamente più maturo e consapevole di quello che invece ci siamo ritrovati a vedere.

È difficile riassumere la quantità di dubbi e perplessità che si sono sommate procedendo nella visione. Il primo ostacolo al godimento del film son state le maschere, le smorfie e le boccacce cui tutti gli attori (tolti giusto un paio) son stati costretti a ricorrere in questo o quel ruolo. Vedere in un film con le ambizioni di Cloud Atlas attori ridotti a macchiette e personaggi che per come sono presentati hanno nel grottesco l'unica possibile chiave di lettura è stata la prima grossa delusione.

Ma forse l'esempio più evidente dell'insopportabile sboronaggine cinematografica che ha guidato la realizzazione di Cloud Atlas sta a monte, nel voler legare a forza di chiacchiere e metafisica d'accatto sei storie che da sole non avrebbero retto, non dico un film intero, ma nemmeno un cortometraggio decente.
L'elenco dei difetti e dei limiti delle singole vicende sarebbe troppo lungo e noioso, preferisco quindi segnalare quel poco di buono che val la pena di salvare. E qui c'è forse l'aspetto più interessante, visto almeno l'hype wachoskyano che circonda la pellicola: in un'ipotetico confronto tra gli autori del film, che si son divisi equamente la regia delle storie da raccontare, il buon Tom Tykwer batte tre a zero i Wachowski bros.
Li batte perché l'unica storia in grado di reggersi sulle proprie gambe, ad avere una coerenza e una profondità che le altre si sognano, è quella del musicista, che invece di svilupparsi, come succede alle altre, sul doppio binario della narrazione singola, lineare e consolatoria, con elementi che rieccheggiano nel resto della pellicola, è decisamente più ricca di spunti e suggestioni, oltre a legarsi in maniera solida e funzionale alla macrostoria che la comprende.
Tom Tykwer esce vincente dal confronto anche perché, quando gira una storia già vista e sentita un milione di volte (penso al thrillerino anni '70), la riesce a rendere sufficientemente appassionante e viva grazie alla quantità di dettagli e riferimenti che pescano dritti dritti dall'immaginario dell'epoca, sfruttando al meglio due facce come quella di Halle Berry e Keith David che in nessun altro episodio di Cloud Atlas risultano altrettanto credibili.
Come se la batosta non fosse già sufficiente, ci si mettono gli stessi Wachowski, con quello che a mio avviso è più clamoroso autogol del film, ovvero l'episodio fantascientifico ambientato a New Seul, che sembra un riassunto di Matrix girato da un dilettante orbo, ma con un sacco di soldi da buttar via.

Detto della schiacciante superiorità autoriale teutonica, rimane da affrontare il nodo della presunta complessità di Cloud Atlas. Raccontare sei diverse storie, sovrapporne lo sviluppo, farle interagire una con l'altra, è certo idea ambiziosa, capace di rendere la pellicola ben superiore alla somma delle sue singole parti. Benché nel film si riconosca un'unità narrativa coerente, la scelta di amalgamare le sei storie grazie sì al montaggio, ma soprattutto per mezzo dell'ammorbante ripetizione dei mantra tipici del Wachowski pensiero: siamo tutti connessi, il passato influenza il futuro che influenza il presente che influenza…, il karma e la reincarnazione, la cattiveria conservatrice del potere di turno e gli occhioni dolci dei rivoluzionari, ecc. ecc. ecc. rendono il risultato finale ben poco soddisfacente. C'è nel film questa sovrabbondanza di chiacchiere che nelle intenzioni degli autori dovrebbe forse guidare lo spettatore, ma che invece di dare profondità al progetto lo rendono piuttosto confuso, mescolando idee condivisibili (il refrain dello scontro con l'inalterabile "stato naturale" continuamente ribadito dalle elité dominanti di ogni epoca) con quel pateracchio di filosofie da supermercato, amore consolatorio e reincarnazione ideale (son stato l'unico che a forza di tatuaggi ritornanti a un certo punto ha pensato ai midiclorian?) che ormai il marchio di fabbrica del duo americano. Se non siamo usciti del tutto delusi dal cinema, lo si deve alla curiosità di vedere fin dove si sarebbero spinti gli autori, anche se poi, a mente fredda, c'è da considerare che probabilmente è il montaggio l'unico elemento che ci ha salvato dalla noia e dalla confusione.

Ultima nota su quello che è forse l'aspetto di Cloud Atlas che più mi ha lasciato perplesso. Conoscendo i precedenti dei fratelli Wachowski, qualche dubbio sulle capacità narrative o sulla pesantezza ideologia del film potevo anche aspettarmelo, ero però sicuro che sarei rimasto stupefatto almeno della gestione della messa in scena, soprattutto per quanto riguarda i momenti d'azione della pellicola.
Quello che invece mi ha colpito è la mancanza di ogni gradualità nel ritmo del film, che è dotato di due sole modalità: on-off. Le scene d'azione esplodono improvvise, quasi a sorpresa, per poi spegnersi subito dopo, con lunghi momenti dominati da panoramiche e chiacchiere, il cui ritmo è dettato unicamente dal montaggio incrociato delle sei storie che si sovrappongono. Le scene d'azione sembrano calibrate al secondo per mantenere desta l'attenzione dello spettatore e per distrarlo dall'eccesso di verbosità, più che per portare avanti una necessità narrativa. Soprattutto danno l'impressione, quasi tutte, di ovvio e già visto, nonché di piuttosto povero visivamente, il che è piuttosto singolare visti gli autori a capo del progetto. Il risultato finale è talmente scontato da far pensare che il budget programmato per la pellicola se ne sia andato per scenografie, costumi e panorami, e quando poi è arrivato il momento di girare e quindi post-produrre, si sia scelta la strada più sicura per evitare eccessi di spesa e minimizzare i rischi.

Anche se non ho alcuna informazione riguardo le vicissitudini produttive di Cloud Atlas, quel che è certo è che mi aspettavo un film diverso. Magari più complicato, ma anche più profondo e coinvolgente, Invece ci siamo ritrovati ad assistere a un enorme dispiegamento di mezzi, a una costruzione narrativa ottimamente congeniata, ma priva di qualsiasi spessore. Sono convinto che i fratelli Wachowski e Tom Tykwer c'abbiano messo quel che di meglio avevano da proporre, noi d'altra parte ci abbiamo investito qualche decina di euro e tre ore del nostro tempo. Visto com'è andata, credo di poter vantare qualche credito nei confronti degli autori.

21 gennaio 2013

Letture: Il castello di ghiaccio, di Tarjei Vesaas

© giorgio raffaelli
In fatto di libri credo ormai di aver capito cosa mi piace, ma cerco comunque di alimentare la curiosità, di battere nuovi territori, di provare sapori mai sentiti prima. Per fortuna ho qualche amico fidato capace di suggerire a ogni occasione valanghe di titoli, autori, letterature di cui non ho (quasi) mai sentito parlare prima.
In questo senso Tarjei Vesaas e il suo Il castello di ghiaccio sono un caso esemplare. Quando Marco mi ha suggerito la lettura del romanzo mi ero immaginato un'epopea fantastica ambientata nel grande nord, magari senza elfi e folletti e con qualche risvolto intimista, ma non certo la storia che ho poi effettivamente incontrato. Direte: informarsi prima, no? Certo, e poi, la sorpresa dove sta?
In effetti ho scoperto solo più tardi, a fine lettura, che lo scrittore norvegese è ritenuto uno dei più grandi autori scandinavi, e il suo romanzo una pietra miliare della letteratura di quelle latitudini. Ma al momento mai avrei pensato che Il castello di ghiaccio potesse rivelarsi una lettura tanto emozionante.

Le prime pagine del romanzo non fanno nulla per cancellare la mia prima impressione. In effetti ci sono tutti gli ingrediente base per sviluppare una storia pronta a battere le piste del fantastico (una bimba che cammina nella notte, al freddo, timorosa e risoluta, che si dirige solitaria verso una meta sconosciuta, senza nessun elemento per giudicare il quando, il dove, il perché). Ma poi tutto rientra nella normalità: la bimba va a casa di una compagna di classe, il buio è il normale inverno del grande nord, i timori sono quelli tipici dell'infanzia. È la scrittura di Tarjei Vesaas a rivelarsi tutto tranne che normale o, per meglio dire, è la modalità di gestione della vicenda ad essere piuttosto originale.

Il castello di ghiaccio è un romanzo di formazione, racconta il passaggio dall'infanzia all'età adulta di Siss, che dal confronto e dall'amicizia con la solitaria Unn uscirà trasformata in una persona diversa, più matura, certo, ma anche più pragmatica, senza il conforto (e la maledizione) dell'immaginazione a governarne scelte e atteggiamenti.
Al centro del romanzo ci sono un mistero e un dramma. Se il primo incombe irrisolto su tutta la vicenda, contribuendo non poco al clima cupo e angoscioso che sottende le vicissitudini della protagonista, il secondo splende della luce gelata del nord e illumina freddo e inesorabile il cammino che Siss si costringe a percorrere fino a una conclusione che risulta insieme catartica e inevitabile. Sullo sfondo la natura aliena dell'inverno norvegese, fatta di laghi ghiacciati e boschi tenebrosi, neve e oscurità, trasfigurata in uno spazio libero, luminoso di meraviglie e possibilità, dallo sguardo magico delle bambine che vi si perdono, e vi ritornano e ne vengono rapite, in un continuo riflesso del mondo che le circonda.
Il procedere della storia è fatto di silenzi, di tacite comprensioni, di libertà rubate e poi restituite, ed è stupefacente come si percepisca forte e distinta la voce dell'adolescenza che spinge nel corpo dei ragazzi per uscire e divorare vita, morte, amicizia, amore, fino a lasciare svuotata un'infanzia fino ad allora assoluta e trasformare gli individui in qualcos'altro, più consapevoli forse, ma anche più poveri e isolati.
Il castello di ghiaccio è un romanzo con ormai cinquant'anni sulle spalle, la prima edizione risale al 1963, eppure è straordinario come suoni tuttora vivo e attuale, nonostante il tempo e la distanza che separano la Norvegia di Tarjei Vesaas dal nostro panorama quotidiano. Ma non è forse questo il destino dei classici?

17 gennaio 2013

Visioni: Monsters

"È così diverso guardare l'America dal di fuori. Stare seduti qui fuori a guardare all'interno. Quando sarai a casa sarà facile dimenticare tutto questo. Domani ognuno tornerà alla propria vita, alle case perfette, ai quartieri eleganti e tutto quello che è successo non avrà alcuna importanza."

C'è un momento durante la visione di Monsters in cui ti rendi conto che il confine tra verità e intrattenimento è davvero sottile. Che le stesse battute sentite in qualsiasi altro contesto sarebbero parse le solite quattro parole retoriche per dare una patina di consapevolezza al vuoto in cui normalmente andrebbero a cadere.
Invece nel film di Gareth Edwards le parole messe in bocca al protagonista, in un momento di calma, di fronte all'enorme barriera che separa gli Stati Uniti dal Messico contaminato assumono un senso e un'importanza che sarebbero andati persi in bocca a un personaggio meno credibile, in una situazione che gestita altrimenti poteva decretare il collasso di una storia che in quel momento poteva virare al patetico, con baci e abbracci e consolazione masturbatoria finale.

A Monsters riesce invece quello che ai suoi parenti cinematografici più prossimi, penso a District 9 e a Cloverfield, sfugge proprio per eccesso di confidenza e mancanza d'umiltà.
Monsters vive nei limiti che District 9 ha voluto consapevolmente superare per cercare la via del blockbuster (niente spettacolari esplosioni o sparatorie infinite qui dentro) e per questo risulta decisamente più credibile e coerente del film sudafricano. Mentre le imperfezioni che in Cloverfield non erano altro che falsi d'autore, in questo film rappresentano bene tutta la voglia di farcela che autore e troupe devono aver speso per superare i limiti strutturali di un budget risicato.

Monsters è il miglior film di fantascienza visto da molto tempo a questa parte (insieme all'accoppiata sfornata da Duncan Jones negli anni scorsi) perché riesce a combinare in una struttura narrativa coerente ed emozionante una manciata di personaggi normali ritratti in situazioni straordinarie con un sacco di idee originali a complicare il tutto, offrendo per di più allo spettatore una molteplicità di livelli di visione, senza dimenticare nemmeno per un istante la meraviglia, che in un film di questo genere non dovrebbe mai mancare. Cosa chiedere di più?

Mantenendo sullo sfondo l'invasione aliena (ma sarà poi tale?) Monsters si permette di disquisire di etica dei media (il protagonista è un fotografo ambizioso e senza troppi scrupoli), di politiche militari (la guerra portata agli alieni costa più vittime civili dell'invasione stessa), di confini ed emigrazione e quindi di imperialismo ed ecologia. E lo fa senza un solo predicozzo morale, senza mai puntare il dito, semplicemente mostrando due persone qualsiasi alle prese con una situazione più grande di loro, mettendoli di fronte alla vita degli altri, obbligandoli a fare delle scelte e ad accettarne le conseguenze.

Ma Monsters è pur sempre un film di fantascienza ed è sul vedo / non-vedo dei mostri che si gioca la partita più difficile della pellicola.  È in questo ambito che si apprezza tutta l'abilità artigiana dei tecnici, che riescono a trasformare con un nonnulla (o quasi) il niente in magia visiva: la cartellonistica che accompagna il viaggio dei personaggi, quel che rimane dopo il passaggio dei mostri sul territorio, un paio di tentacoli sparsi e rumori diffusi, la notte che confonde ma che non sembra mai nemica. E poi le televisioni sempre accese con i mostri sullo sfondo, la meraviglia dei funghi nel buio, l'incontro finale, apoteosi e degna conclusione di un viaggio che sembrava avere tutt'altra destinazione.

Ultima nota sui due attori protagonisti, Scoot McNair nel ruolo del fotografo che deve prendersi cura e scortare al sicuro la figlia del suo editore, intepretata da Whitney Able.
La coppia funziona benissimo, sia per l'indubbio feeling che riescono ad instaurare tra loro e con il pubblico, sia per la qualità della sceneggiatura che ne guida il percorso con mano sicura, senza mai strafare, con un'impressione di naturalezza davvero invidiabile. Sono quei due personaggi ad accompagnare lo spettatore nel lungo viaggio verso casa, e se c'era il rischio che la loro storia soffocasse ogni altro aspetto della pellicola questo è stato scongiurato dall'abilità di Gareth Edwards, regista e autore di Monsters, nel mantenere sempre laterale la loro presenza, e di farli avvicinare solo quando le emozioni in ballo non riguardano i loro personaggi ma lo spettatore che ne segue la vicenda.

È questo equilibrio a rendere Monsters un film indimenticabile, tanto da permettergli di sfiorare la verità e uscirne ancora più forte, con una storia che non si disperde e anzi si rinforza ad ogni svolta, mantenendosi compatta e avvincente via via che si aggiungono nuovi elementi e nuove suggestioni, con i mostri nascosti nel buio, indifferenti, come noi non riusciamo più a essere.

(Per la visione di questo film devo un enorme grazie a Elvezio Sciallis e alla sua splendida recensione.)

15 gennaio 2013

Riccardo Valla (1942-2013)

© giorgio raffaelli
Riccardo Valla ci ha lasciati ieri, improvvisamente, e noi, qui, siamo rimasti sorpresi, spiazzati, increduli.

Riccardo Valla era una colonna portante della fantascienza e del fantastico in Italia, come curatore per l'Editrice Nord ha portato nel nostro paese alcuni dei romanzi più significativi della letteratura di genere di provenienza anglosassone, come traduttore ha ricevuto i più importanti riconoscimenti ma, soprattutto, s'è conquistato il rispetto dei lettori: trovare il suo nome nel colophon del dato volume equivale per molti di noi a un sigillo di qualità, che sappiamo bene quanto pressappochismo circondi spesso le edizioni italiane dei nostri libri preferiti.

L'ultima volta che ho scambiato qualche parola con Riccardo non è andata bene, con io che in pratica gli davo del vecchio arrogante e lui che mi tacciava di crassa incompetenza (i termini non erano questi, che lui è sempre stato troppo elegante per ridursi a battibeccare con un cialtrone qualsiasi e io che non mi sarei mai permesso di usare certi termini in sua presenza). Non sono orgoglioso di quell'ultimo scambio, ma son cose che lasciano il tempo che trovano quando poi ci pensa la vita (e la morte) a mettere tutto nella giusta prospettiva.

A parte le divergenze personali, Riccardo Valla era un ottimo interlocutore, che si trattasse di letteratura (ovviamente!) di musica, di scienza o di politica o di qualsiasi altro argomento stimolasse la sua curiosità, ed era una persona di cui ho sempre invidiato la profonda cultura e la facilità d'eloquio.
Riccardo Valla era generoso e disponibile, magari con quel pizzico di snobismo che lo caratterizzava, ma che passava sempre in secondo piano quando c'era da dare una mano, che si trattasse di vecchi amici o di niubbi al primo giro in rete.

E poi Riccardo era un tipo brillante, pronto allo scherzo e di ottima compagnia (la persona che emergeva dai suoi messaggi online era la stessa medesima anche dal vivo, e non si può dire di tutti). Mancherà moltissimo a me e a tutti coloro che lo hanno conosciuto di persona o per mezzo di tutti quei libri che ne manterranno vivo il ricordo.
Riposa in pace.

14 gennaio 2013

Si cambia

© giorgio raffaelli
Dopo quasi diciassette anni di lavoro nella stessa azienda, venerdì scorso ho rassegnato le dimissioni.
Si cambia, ed era ora.

Se me ne vado non è per chissà quale problema di rapporti umani e nemmeno per questioni economiche, che almeno in questo senso di certezze intorno non ce ne sono più da un pezzo. Me ne vado perché ho ricevuto una proposta di quelle che non si possono rifiutare.
Le aspettative sono alte, confortate dall'opinione di amici e conoscenti che ben conoscono la realtà che mi aspetta. Sono piuttosto ottimista, anche se so già che sarà difficile ritrovare un posto di lavoro come quello che lascio. Il rapporto con i colleghi e con i titolari non potrebbe infatti essere migliore. Nonostante la crisi degli ultimi anni, che ha significato cassa integrazione prima, contratto di solidarietà poi, con tutto il contorno di problematiche che una situazione simile porta con sé, la stima e il rispetto non sono mai venuti a mancare.
Ma quando dopo tanti anni di mestiere il lavoro diventa routine, quando le possibilità di crescita professionale si sono pressoché esaurite, quando ti rendi conto che è da un sacco di tempo che non impari qualcosa di nuovo, beh… quando sei messo così è davvero venuto il momento di guardarsi attorno e decidere cosa fare. Sperando in un colpo di fortuna, cercando nel frattempo di fare del proprio meglio per non farsi mancare stimoli e opportunità. Quando poi succede che, senza nemmeno guardarsi attorno in cerca di un'alternativa, è l'alternativa stessa a venirti a cercare, beh… non c'è nemmeno bisogno di stare troppo a pensarci su.

Non so come il nuovo lavoro influirà sulla gestione del blog. È assai probabile che la mia presenza on-line subisca un inevitabile ridimensionamento, almeno fino a quando il periodo di assestamento lavorativo non raggiungerà un equilibrio e riuscirò a capire quante energie mi rimarranno per la rete. Di certo non ho nessuna intenzione di mollare, che a questo spazio di sono affezionato, e uno sfogo per le mie menate devo pure trovarlo. Per ora, nell'immediato, ovvero nelle prossime settimane, cercherò di azzerare il gap con l'arretrato, fatto di post già previsti e programmati ma non ancora scritti.
Poi si vedrà.

07 gennaio 2013

Letture: Eudeamon, di Erika Moak

© giorgio raffaelli
Un libro di fantascienza relativamente recente (il romanzo è del 2009) portato in Italia, tradotto e distribuito in libreria da una piccola casa editrice che non ha mai pubblicato letteratura di genere? Siamo sicuri che sia tutto vero e che non sia solo immaginazione? Quand'è capitato l'ultima volta?
Vista la peculiarità del romanzo, la curiosità di leggere Eudeamon, libro d'esordio di Erika Moak, è cresciuta parecchio nel corso del tempo, alimentata nel frattempo da recensioni mediamente positive dalle fonti più disparate.

Eudeamon è costruito come il più classico romanzo di fantascienza sociale anni '50: un'idea forte su cui ruota ogni aspetto della storia, uno sviluppo lineare della vicenda, uno stile piano e privo di complicazioni. Quel che allontana Eudeamon dall'atmosfera d'antan sono l'attenzione alla sessualità dei personaggi, che dona una patina di blando erotismo alla vicenda, e l'incrocio tra realtà virtuale e solipsismo sfrenato che costituisce il motivo d'interesse del romanzo.
Alla base di Eudeamon c'è l'ipotesi che la soluzione migliore per combattere il crimine sia dotare ogni detenuto di una prigione individuale che al contempo lo isoli e lo renda ben riconoscibile, e lasciarlo quindi libero di vagare per la città. Questa custodia singolare è una tuta di latex nero ultratecnologica, che impedisce di fatto ogni comunicazione, obbliga i prigionieri a rituali umilianti e filtra ogni possibilità di contatto con l'esterno, riducendo ogni impulso sensoriale all'ombra di se stesso. La protagonista, Katrina Nichols, giovane giornalista d'assalto, decide di infilarsi in incognito in una di queste tute per denunciare la disumanità di questa pratica punitiva. Da queste premesse si sviluppa una storia che indaga più sulle conseguenze individuali della vita all'interno della tuta che sulle ricadute sociali che tale procedura penale potrebbe comportare.

Eudeamon pone al centro della narrazione le idee che abbiamo riguardo alla realizzazione personale, a sesso e amore, a realtà virtuale e felicità personale, rendendole inestricabili dalla vicenda personale della sua protagonista e discutendole con lei, man mano che la sua situazione evolve nel corso del romanzo. Se questo è indubbiamente il motivo d'interesse del testo, che dimostra una certa originalità nel punto di vista e nell'attenzione che dedica agli aspetti quotidiani di un'esistenza invero diversa, i suoi limiti sono riconducibili allo svolgimento e alla gestione dell'intera vicenda, che soffrono di qualche incertezza e parecchia monotonia.
Per quanto discutibile sia la risposta della protagonista e, immagino, dell'autrice, alla situazione di privazione sensoriale che caratterizza il romanzo - non so cosa ne pensiate voi, ma il solipsismo creativo non può essere, almeno dal mio punto di vista, la risposta ai malanni del mondo - il difetto di Eudeamon è un altro. Per seguire e appassionarsi alla storia di Katrina tocca accontentarsi, che la scrittura di Erika Moak è troppo piatta e incolore per trasformare la lettura del romanzo in un'esperienza soddisfacente. Se lo stile non rimane particolarmente impresso, lo stesso si può dire di personaggi e ambientazione. Se è vero che il ritratto della giornalista protagonista è credibile e la sua personalità sufficientemente approfondita, tutti i comprimari si riducono a comparse buone per la scena o utili per evidenziare il momento particolare, ma subito dimenticabili; idem per lo sfondo, sia ambientale che sociale, su cui si colloca la vicenda, che più ci si inoltra nella storia più anonimo appare, facendo perdere profondità e prospettiva a tutta l'azione.

Visti i difetti, è davvero curioso che un libro simile sia riuscito ad avere addirittura un'edizione italiana, tanto da far nascere più di un sospetto sulla sua effettiva provenienza. Ma teniamo per noi i dubbi riguardanti origine e identità della sua autrice, che tutto sommato il libro si lascia leggere, e diamo credito a Zero91 per aver osato pubblicare un romanzo di fantascienza qui, in Italia. Speriamo solo che le prossime scelte fantascientifiche dell'editoria nostrana puntino su nomi e opere che godano già di un minimo di credito nella loro edizione originale, che Eudeamon m'è parso un po' troppo acerbo per fare da apripista a un intero genere letterario.