28 maggio 2014

Di ritorno dall'ItalCon

© Annalisa Antonini & Giorgio Raffaelli
L'ItalCon è l'appuntamento annuale che riunisce il mondo italiano della fantascienza. Da qualche anno a questa parte l'evento è stato accorpato alla SticCon, che è invece il più importante incontro dei trekkies italiani e probabilmente il più frequentato evento del genere in Italia.
Esclusa una felice partecipazione a una vecchia ItalCon (a Fiuggi, nel 2009) per me è stata la prima volta a Bellaria e, soprattutto, la prima volta con un ruolo ufficiale, in qualità di editore con il nostro progetto Zona 42.

Come Zona 42 la nostra esperienza all'ItalCon si può riassumere in pochissime parole: non credo ci torneremo più. Almeno non ufficialmente.
Suonerà drastico, e forse anche un po' pretenzioso: siamo gli ultimi arrivati, facciamo appena in tempo a partecipare e già ci arroghiamo il diritto di criticare e polemizzare.
Il motivo di una scelta che a caldo ci appare inevitabile è stata la sensazione che ci siamo portati a casa dall'esperienza di Bellaria, ovvero che dei libri, della letteratura, della fantascienza scritta, agli organizzatori della SticCon non frega poi molto.

La mancanza di eventi di cartello, la sala mal segnalata, i panel mai annunciati, i banchi dei libri emarginati e laterali, la partecipazione praticamente nulla dei convenuti agli incontri in programma: tutte scelte lecite e comprensibili (il business che ruota intorno a Star Trek e Star Wars è la priorità della Con, evidentemente), ma dal nostro punto di visto decisamente poco condivisibili, ci fanno pensare che l'integrazione dell'ItalCon nel grande baraccone dell'incontro di Bellaria sia probabilmente un male necessario, ma del tutto superfluo agli scopi dell'organizzazione.

Detto questo, vediamo i lati positivi, che sono, come spesso accade in questi casi, l'incontro con i vecchi amici e le nuove conoscenze e tutte le chiacchierate e le discussioni che sempre accompagnano questi appuntamenti.

A Bellaria ho rivisto Giovanni De Matteo che presentava Corpi Spenti, il seguito di Sezione π² in uscita a giugno per Urania, ho conosciuto Lady Simmons (e compagno!) ed è stato davvero un piacere e già si parla di organizzare qualcosa a Torino (grazie anche ai ragazzi del MuFant, con cui si è parlato domenica), ho incontrato Andrea Viscusi, che causa defezione all'ultimo minuto (pienamente giustificata!) del suo compagno d'avventura, m'ha coinvolto nella presentazione di Spore, ed è stata una gran bella esperienza.
E poi gli incontri nei corridoi, i pranzi con i Vanamonde e Silvio e Dario, Annalisa che ha portato pazienza e la Lui che ha contribuito a scaldare l'atmosfera.
Sì, dal punto di vista umano la mia due giorni di Bellaria è stata splendida.

Tornando ai momenti ufficiali della convention, la presentazione del progetto Zona 42 è andata abbastanza bene, con la sala che si è via via riempita e la fondamentale partecipazione di Silvia Castoldi e Marco Passarello, ovvero i traduttori de Il Sole dei soli, di prossima uscita, che ne hanno dato una visione davvero entusiasta. E con una interessante discussione finale (grazie Lui!) che si è purtoppo dovuta interrompere causa sforamento dei tempi a nostra disposizione.
Abbiamo parlato dei nostri progetti futuri, fatto qualche anticipazione sulle prossime uscite (se ne riparlerà nei prossimi giorni in un apposito post sul sito di Zona 42) e azzardato qualche riflessione su quali siano le migliori strategie per far conoscere il nostro progetto editoriale al mondo là fuori.

Non so quale saranno in futuro i rapporti tra Zona 42 e questo tipo di eventi. Una risposta possibile potrebbe essere focalizzarci su incontri più mirati e specializzati, o magari provare a organizzare qualcosa in autonomia, tenendo conto delle nostre risorse e delle nostre possibilità.
La riflessione è aperta, rimanete sintonizzati!



20 maggio 2014

Zona 42 va all'ItalCon

© Giorgio Raffaelli
Nel prossimo fine settimana Zona  42 si trasferisce a Bellaria per presentarsi al popolo fantascientifico che frequenta l'ItalCon, la più importante manifestazione del genere in Italia. Come ormai da qualche anno a questa parte, l'ItalCon, arrivata ormai alla quarantesima edizione,  si svolge insieme a SticCon e YavinCon, che rappresentano invece gli appuntamenti annuali dei club di appassionati di Star Trek e Star Wars. Ci si aspetta quindi la presenza di folle sterminate (si fa per dire!), pronte a immergersi nelle atmosfere a metà strada tra Marte e il West del nostro Desolation Road.

Scherzi a parte, noi presenteremo il nostro progetto domenica mattina alle 11.00 nello spazio Babel del Centro Congressi Europeo di Bellaria.
Sarà l'occasione per fare il punto della situazione, parlare dei progetti futuri (Grandi annunci! Novità in arrivo! Titoli! Nomi!), fare quattro chiacchiere con chi ha già letto Desolation Road e con tutti i potenziali lettori che non hanno ancora avuto l'occasione di accostarsi al romanzo di Ian McDonald. 
Vi aspettiamo numerosi!




16 maggio 2014

Letture: L'inconfondibile tristezza della torta al limone, di Aimee Bender

Torniamo a parlare di libri con un volume che a fine lettura m'ha lasciato un po' così, in bilico tra scetticismo e genuino entusiasmo. Forse buttar giù qualche nota mi aiuterà a chiarire le idee. Si parla del secondo romanzo di Aimee Bender, L'inconfondibile tristezza della torta al limone.

© Aelle

Primo spunto: non avrei mai letto un libro con un titolo simile e la sinossi che lo accompagna, se non avessi avuto ben presente cosa aveva combinato in precedenza la sua autrice. Aimee Bender mi ha colto alla sprovvista qualche anno fa con le sue Creature Ostinate (una delle migliori letture dell'epoca) e si è poi confermata ottima narratrice con l'altra sua antologia (che è stata scritta prima, ma che io ho letto dopo), quel Grida il mio nome edito prima da Einaudi e ripubblicato di recente da minimum fax con il titolo La ragazza con la gonna in fiamme.
Con i racconti di Aimee Bender vado sul sicuro, che la sua scrittura sembra fatta apposta per esaltarsi sulla breve distanza. La dimensione del romanzo, che richiede allo scrittore un approccio diverso, quasi da passista della narrazione, non potendo esaurire la sua corsa in poche pagine, mi sembrava invece poco adatta alle caratteristiche dell'autrice. Per questo motivo me ne son tenuto ben distante. Fino ad ora.

Secondo spunto: racconti e romanzi, trova le differenze…
Aimee Bender ha immediatamente conquistato la mia attenzione grazie alla combinazione tra una prosa intensa e leggera, spesso malinconica e le invenzioni esplosive, conturbanti e in generale parecchio strane che illuminano le sue opere. Questa miscela funziona a meraviglia nello spazio del racconto, ma temevo non fosse abbastanza resistente da reggere la lunghezza di un romanzo.
Risultato? mah…  L'inconfondibile tristezza della torta al limone si legge che è un piacere, ma il peso specifico delle stranezze (passatemi il termine), rispetto agli aspetti più tradizionali del racconto della vita quotidiana della solita famiglia della classe media americana (avvertite anche voi una certa ostilità all'argomento? bene) ha portato questo lettore a chiedersi più di una volta se non fosse il caso di abbandonare il volume in favore di testi che rispondessero meglio alla propria esigenza di meraviglie e turbamenti.
Però no, dai, sarei ingiusto con la Bender. Il romanzo è scritto bene, e le meraviglie cui mi ha abituato (chiamatele fantastiche, fantascientifiche, surreali, la definizione dipende dai territori letterari che vi sono più congeniali) sono funzionali alla storia, le danno un senso e una complessità che altrimenti si sarebbe persa. Certo, forse semplificano la vita dell'autrice, ma rendono l'esperienza della lettura più ricca e affascinante e quindi, perché lamentarsi?
Il mio problema è che le vite dei personaggi de L'inconfondibile tristezza della torta al limone non mi interessano più di tanto e quindi… E quindi arriviamo al

Terzo spunto: personaggi e interpreti.
Perché è vero, i personaggi sono resi in maniera magistrale: Rose e Joseph, i loro genitori, gli amici e gli incontri. Tutto ottimo, se vi interessa il genere. Io invece faccio fatica a comprendere 'sti ragazzi per cui il college è la normalità e non andarci sintomo di una disfunzione psico/sociale, assuefatti come sono a una vita preconfezionata che nemmeno l'irrompere dell'impossibile riesce a turbare. Molto più interessanti, dal mio punto di vista, gli scorci di una Los Angeles normale, osservati spesso dalla prospettiva del pedone piuttosto che dai finestrini delle auto o degli autobus che attraversano la città, che offrono al lettore una prospettiva  parecchio diversa dall'immutabile iconografia della metropoli che Hollywood ci impone ormai da tempo immemore. Sono questi gli attimi - insieme ai momenti dedicati al cibo e ai ristoranti - in cui il racconto mainstream mi appassiona, pur mancando di quegli effetti speciali che continuano ad essere il richiamo più forte che mi attira tra queste pagine.
I turbamenti adolescenziali della giovane Rosie, le turbe del fratello, l'autismo ipnotico della vita del padre e quella sempre sull'orlo di una qualche crisi della madre: Aimee Bender offre al lettore un ritratto perfetto della middle class californiana (ecco, se fossi un recensore serio, questo è quello che dovrei scrivere!), ma a me interessa la magia della narrazione, quel che la Bender ha già dimostrato di saper fare nei racconti. E no, alla fine non rimango deluso: le pagine in cui cibo ed emozioni (risentimento, dolore, gioia o allegria) si mescolano nella bocca di Rosie, quelle - purtroppo troppo rare - in cui Joseph perde corpo e sostanza soffocato dal suo stesso mistero, le porte degli ospedali che rimangono chiuse, le nonne lontane e sconosciute, ma vicine negli oggetti, rotti e strapazzati che siano.
C'è molto di buono ne L'inconfondibile tristezza della torta al limone, magari un pochino diluito, ma c'è. Ed è qualcosa che è difficile dimenticare, nonostante tutto.

12 maggio 2014

Ben Harper dal vivo a Padova, 9 maggio 2014

There's always someone younger
someone with more hunger
(don't let it take the fight outta you)


© Francesco Castaldo

E così venerdì sera siamo andati a Padova al concerto di Ben Harper.
E beh… nonostante le premesse non fossero le migliori sono tornato entusiasta dall'esperienza.

© Giorgio Raffaelli
Abbiamo visto Ben Harper la prima volta all'arena di Verona qualche anno fa. Suonava con gli Innocent Criminals ed eravamo riusciti a a farci accreditare come fotografi. Saranno state le condizioni in cui ho assistito al live, o la spettacolare collocazione del concerto, in ogni caso ho trascorso una gran bella serata: ottima musica, foto invidiabili, clima ideale. Se per me le parti migliori sono stati i momenti in cui  Ben Harper esplorava la sua vena funky/rock, ottimamente supportato dalla sua band, il piccolo siparietto a metà dello show in cui il musicista californiano ha proposto qualche pezzo acompagnato solo dalla sua chitarra è stato forse il momento più debole del concerto. Ok, Ben Harper è bravo, ma ehi! il tiro della band aveva tutt'altro impatto.

Quest'anno ho preso i biglietti per tempo (erano il regalo di complenno di Annalisa) senza avere la più pallida idea riguardo al tipo di show che avrebbe proposto. Quando ho scoperto che il live sarebbe stato uno one-man show (ok, c'era anche la sua mamma, ma ci siamo capiti…) ho avuto qualche dubbio sull'esito della serata.
Ma siam partiti comunque carichi, che "Ben Harper è Ben Harper" (Annalisa) e "male che vada spero ci sian delle poltrone comode" (io).

Da parte mia temevo una reazione Blutarsky, e il buon Ben l'ha rischiata in paio di momenti, quando il suono del suo slide si avvolgeva su se stesso senza arrivare da nessuna parte, ma nel complesso non credevo che quasi tre ore di un tizio che suona da solo la chitarra potessero rivelarsi così emozionanti.

Che Ben Harper sia un ottimo chitarrista non lo scopro certo io, ma prima di venerdì sera non avevo mai sentito qualcuno usare la voce con la stessa qualità, lo stesso talento, la quasi infinita gamma di toni ed emozioni che lui è riuscito a tirar fuori per tutta la durata del suo concerto.

Ben Harper non è mai stato tra i miei artisti preferiti. Massimo rispetto, certo, ma m'è sempre parso fin troppo perfetto, con quell'atteggiamento da bravo ragazzo che si porta dietro, e il rischio della noia sempre dietro l'angolo. Se parliamo di voci vuoi mettere con un tipo come, chessò, Jeff Buckley? Ben Harper non pare proprio tipo da buttarsi in un fiume, e poi dai, la famiglia e la vita sana…
Anche suonare con la sua mamma, vi pare roba da rockstar?

© Melissa Nicholson



Ma Ben Harper è evidentemente un testone. Segue la sua strada, e poche balle. Lavora come un mulo, e si vede: canta cento volte meglio ora rispetto a qualche anno fa, suona le sue chitarre (ne avrà usate quindici diverse durante lo spettacolo, oltre a proporre qualche pezzo al piano) con una dedizione, un amore che si ferma sempre appena a un passo dall'ossessione, tirando fuori suoni che se non li senti non ci credi. Con quell'aria di trovarsi lì quasi per caso, la goffaggine dei movimenti e la ritrosia nei rapporti con la platea. E qualcosa da dire, e la capacità di farsi sentire. Noi l'abbiamo ascoltato più che volentieri per tutta la serata e ci siamo ritrovati a casa consapevoli di aver assistito a un gran concerto.

07 maggio 2014

Ian McDonald, un profilo d’autore

Posto anche sul mio blog, in parallelo con la pubblicazione sul sito di Zona 42, il profilo di Ian McDonald che Sandro Pergameno ha realizzato per la nostra edizione di Desolation Road.

ianMcDonald
Considerato ormai uno dei migliori scrittori di fantascienza viventi, e appartenente alla nutrita pattuglia britannica che oggi è davvero leader nel genere e comprende autori come Alastair Reynolds, Paul McAuley, Ian R. Mcleod, Ken MacLeod, e lo scomparso Iain Banks, Ian McDonald è nato nel 1960 a Manchester, in Inghilterra, ma si è trasferito da piccolo con la famiglia a Belfast, nell’Irlanda del Nord, dove oggi risiede.
Ian McDonald inizia a pubblicare fantascienza con The Islands of the Dead, uscito sulla rivista Extro nel 1982. Questo racconto, insieme ad altri raccolti in Empire Dreams, del 1988, e ai suoi primi romanzi, sempre di quell’epoca, dimostrarono subito la sua passione per ambientazioni complesse e raffinate e per una ricerca narrativa molto elaborata dal punto di vista stilistico e di costruzione della vicenda.
Il suo primo romanzo, l’ottimo Desolation Road, apparso negli USA nel 1988, è stato definito come un incrocio tra le Cronache Marziane di Ray Bradbury e Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez. Più che scrivere ‘pastiches’ di autori classici, si può dire che McDonald mostri la loro influenza in un’intelligente appropriazione di certe angolazioni narrative: tali appropriazioni sono necessarie per far risaltare in maniera fortemente emotiva le implicazioni psicologiche delle trasformazioni ambientali causate dal processo di ‘terraforming’ di Marte, o della trasposizione in cyborg del fisico umano.  
Desolation Road è la storia epica e complessa della città omonima, fondata su Marte nel momento in cui il dottor Alimantado si allontana nel deserto verso un misterioso incontro alieno, e cresciuta attorno a un eccentrico gruppo di rifugiati e pionieri che si sono radunati presso l’oasi di Alimantado.
Ian McDonald
non si fa scrupoli nel creare un Marte pieno di prodigi tecnologici: macchinari intelligentemente avanzati sono attivi nell’opera di ‘terraforming’ e di controllo meteorologico del pianeta, e fanno parte di un bizzarro pantheon dominato da arcangeli meccanici ben integrati nelle vite dei mistici della città marziana.
I sogni dei memorabili protagonisti di Desolation Road sono mitici o razionali, alcuni colmi di odio, altri avidi di meraviglie. Essi attraggono sempre più gente nella città marziana; sempre più uomini e donne con ideali contrastanti, finché un Neo Feudalesimo verrà a regnare sopra ideali diversi come la solidarietà dei lavoratori, la rivoluzione nichilista e la religione delle macchine.

Out on Blue Six, del 1989, è un’opera meno convincente di Desolation Road; descrive una antiutopia, tema classico della fantascienza, e in particolare della fantascienza inglese negli anni del governo della Thatcher a Londra. Si tratta di un tentativo di riabilitare gli ideali del socialismo, combinando certi motivi alla Heinlein (vedi Rivolta 2100) - l’Uomo, in questo caso la Donna, che ‘impara’ dall’esperienza e ‘cambia’ - con altre tematiche tipicamente alla Van Vogt (certi misteriosi ‘padroni nascosti’), o prese a prestito dalla ricerca del Santo Graal. Il risultato è qualcosa di piuttosto farraginoso e indigesto.

King of Morning, Queen of DayMa è con il suo terzo romanzo, King of Morning, Queen of Day, uscito nel 1991 e tratto da un racconto precedente dallo stesso titolo, che Ian McDonald esce prepotentemente alla ribalta. Vincitore nel 1992 del premio Dick per il miglior tascabile dell’anno, King of Morning, Queen of Day riesce a rinnovare in maniera magistrale i canoni del genere fantasy (un po’ come avrebbe fatto Michael Swanwick nel suo originalissimo Cuore d’acciaio). Il romanzo è un ironico omaggio ai canoni del fantasy, in quanto consiste di tre lunghe novelle su altrettante generazioni di donne, e vi compare anche la classica ‘ricerca’ o quest (basi, come cita lo stesso McDonald nella postfazione al libro, di ogni ciclo di fantasy che si rispetti: “Tutte le storie di fantasy devono essere costituite di tre volumi e includere una citazione della ‘ricerca’”).
McDonald tuttavia non ha nessuna intenzione di annoiare i lettori con un’ennesima imitazione dei temi di Tolkien. La sua folle e ambiziosa trilogia in un libro si rifà a ben altri modelli: ai primi scrittori di fantascienza e al poeta Yeats nella sua prima parte; a Beckett, Flann O’Brian e soprattutto al Joyce dell’Ulisse nella seconda; e infine, nella terza sezione, partendo da toni tradizionali sull’identità irlandese attraverso i secoli e le generazioni, va addirittura ad assimilare sapori decisamente cyberpunk, con risultati di eccezionale originalità e forza narrativa. Il vero soggetto del romanzo è l’Irlanda, la sua letteratura, la politica, le guerre, i suoi sogni, gli abitanti, nel corso degli ultimi settant’anni, a partire dal 1913, epoca in cui è ambientata la prima sezione, per finire al presente dell’ultima parte. Si tratta di un’opera incostante sia come struttura che come risultati; nel complesso appare tuttavia un trionfo di eloquenza e raffinatezza letteraria e rimane impressa nella memoria del lettore.

The Broken LandLa carriera narrativa di Ian McDonald prosegue con un’altra opera di grande interesse e di ampio respiro, The Broken Land, del 1992, (uscito come Hearts, Hands and Voices in Gran Bretagna), ambientata in un mondo futuro tropicale ed esotico.
Come nel romanzo precedente, anche qui McDonald si dedica a temi di notevole impegno sociale: il romanzo, in un certo senso un deprimente catalogo delle atrocità del nostro secolo, è incentrato su tematiche quali l’oppressione dei popoli, la violenza e la redenzione. L’ambientazione ricorda a volte l’Irlanda, altre l’Europa nazista, e ancora il Sudafrica, o l’Asia sudorientale. La lotta religiosa e sociale che vi ha luogo riporta sì alla mente il conflitto nord-irlandese cui McDonald è ovviamente molto legato, ma anche altri momenti che hanno costellato e segnato in maniera cruda la nostra epoca (il nazismo, il Vietnam, la barbarie del Sudafrica, ecc.).
La tecnica scelta dall’autore, nello suo stile sempre intensamente poetico e vagamente ipnotico, ricorda quella utilizzata nel primo romanzo; qui il modello cui McDonald si è ispirato è però Geoff Ryman (altro grande autore inglese moderno praticamente sconosciuto nel nostro paese) con i suoi romanzi impegnati e controversi: The Unconquered Country (1986) e The Child Garden (1988).

NecrovilleE giungiamo così a Necroville, del 1994 (uscito in America come Terminal Café), in cui Ian McDonald raggiunge un apice stilistico e narrativo in una trama tecnologicamente e fantascientificamente solida e convincente.
In un mondo in cui l’immortalità è ormai una conquista assodata grazie alle nuove frontiere della nanotecnologia (nella postfazione al libro l’autore rende omaggio a Ian Watson, il primo a sostenere che l’immortalità è il risultato principale che l’umanità potrebbe ottenere dallo sfruttamento delle nanotecnologie), i morti riportati alla vita costituiscono un terzo della popolazione, e sono la spina dorsale della forza-lavoro mondiale. Hanno una loro cultura, i loro costumi, i loro ghetti (la Necroville del titolo) e le loro celebrazioni.
Su questo assunto McDonald riesce a elaborare, attraverso le immagini di una California tecnologizzata e ispanicizzata al di là di ogni attuale previsione, un mondo futuro estremamente complesso e affascinante, fondendo in maniera mirabile il suo stile raffinato e rococò con toni polizieschi e noir alla Chandler e con le pulsioni del cyberpunk.
In definitiva, possiamo sostenere che si tratta di un libro unico e originalissimo, un vero tour de force letterario che consacra definitivamente Ian McDonald nell’Olimpo dei grandi autori della fantascienza contemporanea.  

ChagaI confini dell’evoluzione (Evolution’s Shore, noto anche come Chaga in Gran Bretagna) è un’ulteriore conferma delle magistrali doti stilistiche e narrative dell’autore. Qui Ian McDonald cambia totalmente registro, lasciando da parte l’esplosiva narrazione high-tech e cyberpunk di Necroville per passare a una narrazione più intima e suadente, incentrata sulla vicenda di alcuni esseri umani alle prese con la complessa esplorazione di un’intelligenza aliena.
I confini dell’evoluzione, cui seguirono altre opere significative come Kirynia (un seguito di quest’opera) e Ares Express (che riprende invece le ambientazioni marziane di Desolation Road), si svolge soprattutto in Africa, all’inizio del ventunesimo secolo.
II libro è incentrato sul ‘Chaga’, una misteriosa forma di vita aliena sviluppatasi dopo l’arrivo di una meteora che va rapidamente espandendosi, trasformando il paesaggio africano in un habitat insolito e mostruoso, che ricorda in parte Max Ernst e in parte una giungla nanotecnologica, all’interno del quale nessun essere umano riesce a sopravvivere. Fatto ancora più strano, l’arrivo della meteora coincide con la scomparsa di Iperione, una delle lune di Saturno.
Il romanzo offre una straordinaria visione dell’Africa, che McDonald trasporta in un vicino futuro in cui Nairobi è diventata il centro di un mondo tecnologico di data processing e di venditori di software, un continente trasformato dai molti cambiamenti tecnologici e sociali. L’opera contiene inoltre una lunga serie di riferimenti alla tradizione fantascientifica, che la rendono sicuramente godibile e affascinante. La trasformazione aliena della giungla africana non può non riportare alla memoria Foresta di cristallo (The Crystal World), il grande classico di James Graham Ballard ispirato a un’altra incredibile ‘trasformazione aliena’. Un intervento alieno che si pone lo scopo di apportare una profonda mutazione nei caratteri genetici dell’umanità e un controllo sull’evoluzione della razza umana da parte di alieni benevoli sono in qualche modo alla base di un altro celebre romanzo di Arthur C. Clarke, e cioè Le guide del tramonto (Childhood’s End). Il punto non è di verificare se parti della geniale opera di McDonald risuonano di toni a noi familiari, ma se l’insieme ha un senso e funziona come romanzo. A nostro avviso il tutto si fonde in maniera esemplare, e gli echi di opere importanti aggiungono anzi un fattore di interesse e fascino: è un po’ il libro che Ballard avrebbe potuto scrivere se avesse tentato di dare una spiegazione scientifica ‘alla maniera di Clarke’, o ciò che Clarke avrebbe potuto comporre se avesse avuto una genuina passione per le immagini metafisiche così tipiche di Ballard.

Il fiume degli deiQualche mese fa è poi apparso in Italia quello che molti ritengono il suo capolavoro, e cioè Il fiume degli dei (River of Gods, 2004), che ha vinto il premio della British Science Fiction Association come miglior romanzo dell’anno ed è stato candidato allo Hugo. Il fiume degli dei è il Gange, “che scorre dall’Himalaya al golfo del Bengala attraverso le pianure dell’India settentrionale. Dopo anni di siccità, nell’agosto 2047 la diga costruita illegalmente a Kunda Khadar è diventata il casus belli del conflitto tra due dei vari stati in cui si è scissa l’India degli stati confinanti. Nel frattempo, su un asteroide catturato dal campo gravitazionale terrestre viene trovato il messaggio inciso da un’intelligenza artificiale: e benché si tratti di un reperto più antico del sistema solare, contiene le immagini digitali delle tre persone che potranno decodificarlo, oggi […] Un romanzo di fantascienza con profonde radici nella società del futuro, una sorta di Tutti a Zanzibar dell’era informatica”. Così Christopher Priest descrive il grande romanzo di Ian McDonald su The Guardian.
In realtà queste poche frasi non possono rendere l’idea della grandiosità di un’opera che affronta, attraverso le sue 500 e passa pagine, le storie di dieci personaggi principali e di una schiera di comprimari nell’India (e in particolare nel Bharat di Varanasi, che è uno dei tre stati principali in cui si è suddivisa la grande nazione) del vicino futuro, un’India tecnologicamente ed economicamente assai avanzata ma ancora preda dei suoi storici dilemmi sociali e razziali, tra pregiudizi di casta e guerre semitribali per il controllo dell’acqua, in un mondo ormai impoverito di risorse.

Per concludere, va infine ricordato che Ian McDonald, sulla scia del successo di River of Gods, ha poi composto altri romanzi importanti e ambientati nel futuro del nostro pianeta, in zone altrettanto interessanti, quali Brasyl (ambientato ovviamenti in Brasile) e The Dervish House, che dipinge la Turchia del prossimo futuro. Entrambi i testi hanno anch’essi vinto il premio della British Science Fiction Association come miglior romanzo dell’anno.