31 ottobre 2017

Letture: Terminus Radioso, di Antoine Volodine

Terminus Radioso è un romanzo pazzesco, uno di quei testi che se lo racconti non ci credi. Una storia che man mano che si dipana toglie qualsiasi riferimento concreto al lettore, lasciandolo a vagare tra le parole, negli spazi vuoti e nei silenzi che costellano la narrazione.
Antoine Volodine accoglie il lettore nell'infinita vastità della pianura russa, subito dopo la fine del mondo, in un futuro che ha visto il crollo della Seconda Unione Sovietica incalzata dalle forze controrivoluzionarie e devastata dal crollo dell’infrastruttura energetica nucleare che ne permetteva il sostentamento. 
E fino a qui Terminus Radioso sembra quasi un romanzo normale.
Fai appena in tempo a trovare qualche punto di riferimento che immediatamente la storia implode su se stessa, quando Kronauer, il personaggio che abbiano iniziato a seguire nel suo peregrinare, scopre il kolchoz Terminus Radioso e i suoi straordinari abitanti. Da qui in avanti le cose si complicano, si perde ogni ragionevolezza, la realtà si sfalda, e la distinzione tra vivi, morti (e cani) diventa del tutto aleatoria e insignificante.

Il padre-padrone di Terminus Radioso è Soloviei, personaggio-mondo, che tutto divora, mastica e sputa, generatore di universi, folle demiurgo e cantore del disastro, immortale spettro che si aggira nelle vite di chiunque gli attraversi la strada. È lui lo specchio di un’umanità nei suoi istanti finali, il destino entropico, la fine dell’universo.
E dal confronto tra Kronauer (solido, semplice, riconoscibile) e Solovei (complesso, contraddittorio, vorace) si muove tutto li romanzo, che intrappola il lettore in una storia incredibile, inestricabile, a tratti incomprensibile, grazie a una scrittura tra le più affascinanti mi sia mai capitato di incontrare. 

Antoine Volodine cala il lettore in un universo metafisico lasciandolo in balia di eventi e personaggi che come lui si trovano a vagare, impossibilitati ad abbandonare il testo, né vivi né morti, in un limbo dove l’atto del narrare è l’unica possibilità di sopravvivenza. Lo fa con un modo di raccontare che a me a ricordato un po’ Bulgakov (per l’abilità di scivolare senza sforzo apparente tra i piani della realtà) e un po’ Perec (per come riesce ad ancorare alle cose, ai particolari, agli elenchi, anche i momenti più straordinari, emozionanti e incredibili del romanzo).
Terminus Radioso è il mondo una volta eliminato tutto il superfluo, con la sua buona dose di allucinazione, di sofferenza (indicibile) e risate (inconcepibili), un vicolo cieco in cui la parola rappresenta l’unica tenue possibilità di salvezza.
Terminus Radioso è un romanzo impossibile, un miracolo di equilibrismo e sapienza, un’epopea fantastica come difficilmente capita di incontrare in libreria. 

Da lettore affamato di storie strane sono molto grato a Antoine Volodine per averlo scritto, ad Anna D’Elia per averlo tradotto in modo magistrale, a 66thand2nd per averlo pubblicato (in una bellissima edizione, tra l'altro). 
E un grazie anche a chi ne ha parlato in rete, facendomelo scoprire (voi sapete chi siete!).





25 agosto 2017

Letture: Warlock, di Oakley Hall.

Warlock, di Oakley Hall è un romanzo formidabile. Non c’è molto altro da dire, o vi fidate, e lo leggete, oppure no.
Se a Warlock ci avessi abitato, all’epoca dei fatti, questo è quel vi spetterebbe come commento al romanzo, ma dato che son qui, e da allora son passati i decenni, mi sa che mi tocca aggiungere qualcosa.

Warlock è un western, e come tutti i western che si rispettino ha la sua bella quota di sparatorie, di sabbia e sudore, di cavalcate e diligenze, di pistoleri e minatori e sceriffi. Ma Warlock è soprattutto letteratura, e a quel che è solito aspettarsi da un western aggiunge una capacità di introspezione, di profondità, di umanità che scorre tra le righe della storia come una forza potente, a ben vedere ben più impressionante della ricchissima e consueta iconografia che l’accompagna.
Il racconto di Warlock è fatto soprattutto di silenzi, che a parlare troppo ci si rimette, sempre, e poi si muore, e di uomini che si trovano imprigionati, per scelta o destino, in un ruolo che spesso diventa maschera, nell’inutile tentativo di sopravvivere a un mondo ostile. Costretti a una narrazione di sè che poco a poco diventa sempre più ingombrante, sempre più inevitabile, tanto che liberarsene richiede una vita di sforzi, e a volte non basta.

Ma Warlock è anche Storia, storia di un paese (e di un Paese) che vuole leggi e regole, e del prezzo da pagare per ottenerle e storia degli ultimi sussulti e del tramonto della frontiera. Frontiera, ovvero il West come siamo abituati a conoscerlo, dal cinema soprattutto, a cui Oakley Hall strappa di dosso ogni parvenza di romanticismo per mostrarla al lettore nuda, e cruda, e selvaggia, e mortale.
E se la trama intricata, e appassionante, che si dipana nel romanzo arriva a un esito in qualche modo consolatorio, l’epilogo narra ancor più del romanzo di un’amarezza di fondo difficile da dimenticare. Con gli “eroi” di Warlock costretti loro malgrado a perdere ogni traccia di umanità e diventare monolitiche leggende, per il godimento (e la rivincita) del Popolo e l’intrattenimento della Nazione.

Ultima nota per la traduzione di Tommaso Pincio, sempre in perfetto equilibrio tra una lingua contemporanea e il suono dei western classici (il romanzo arriva dritto dritto dagli anni ’50 dello scorso secolo), che aiuta a rendere la lettura di Warlock un’esperienza memorabile.

Come dicevo sopra, Warlock è un romanzo formidabile. Leggetelo.

12 luglio 2017

Letture: The Stars Are Legion, di Kameron Hurley

Seguire dall’Italia la produzione internazionale di genere (di fantascienza in particolare) non è cosa agevole, per fortuna esistono un paio di blog che propongono periodicamente commenti e recensioni su quelli che, a torto o ragione, sono considerati tra i volumi più caldi del momento.

Uno di questi è GerundioPresente (un altro è Fragments of a Hologram Dystopia), e quando sulle sue pagine Elisa Giudici parla di qualche titolo sono ormai sicuro che sia degno d’interesse.
Qualche tempo fa è toccato a The Stars are Legion. Il commento che ha fatto Elisa all’ultimo romanzo di Kameron Hurley mi ha colpito, tanto da obbligarmi alla lettura. Del resto era dal primo romanzo della trilogia del Radch di Ann Leckie che non leggevo di una space opera che avesse, almeno sulla carta, tutta quella serie di caratteristiche capaci di incuriosirmi.

The Stars are Legion raccoglie in quattrocento pagine tutta una serie di aspetti ed elementi con un ottimo potenziale narrativo: la Legione del titolo è  costituita da una serie navi-mondo organiche, bloccate in orbita fissa intorno a un sole, abitate da una popolazione esclusivamente femminile; l’azione nasce dalla necessità di conquistare l’unico di questi mondi che pare essere capace di liberarsi e muoversi autonomamente nello spazio e lasciare dunque la Legione.

A questo setting piuttosto interessante, non corrisponde purtroppo una gestione della storia altrettanto soddisfacente. Da una parte spiace notare come la lingua della Hurley non sia particolarmente raffinata, con una scrittura che m’è parsa piatta e uniforme per tutto il corso della storia: a uno scenario estremamente suggestivo non corrisponde un'eguale ricchezza nelle espressioni, e nella profondità di indagine dei comportamenti e delle relazioni tra i personaggi.
Anche lo sviluppo della trama soffre di qualche limite strutturale. La netta divisione in due parti del romanzo, con la prima quasi irritante nel rendere subalterno qualsiasi dettaglio per dare spazio alle gesta (e ai segreti!) dei due personaggi principali, la seconda che come nel più tradizionale schema da space opera d’antan, si riduce a una progressione ad accumulo costante (di personaggi, scenari, incontri) per arrivare un esito che risulta telefonato per prima della conclusione del volume.

Non tutto è dimenticabile: la natura organica delle navi-mondo è effettivamente straordinaria, soprattutto per come si lega alla femminilità dei suoi abitanti; il viaggio di Zan (una delle due protagoniste del romanzo) dalle viscere del mondo alla riconquista del suo posto nella società, per quanto ricalchi parecchi cliché, è comunque affascinante per gli scenari e le suggestioni che evoca; la carnalità dell’ambientazione (e la brutalità delle interazioni) è potente quanto basta per avvincere il lettore e farlo arrivare a fine volume.
Ma ecco, viste le premesse io mi aspettavo qualcosa di più: le potenzialità politiche del testo (Lesbiche!!! Nello spazio!!!) sono del tutto disattese (in pratica i rapporti sociali non vanno molto più in là di un feudalesimo di ritorno, di una povertà sconcertante), così come l'aspetto carnale e femminile della vicenda (che dovrebbe essere legato a doppio filo con quello politico), se c’è la violenza, manca quasi del tutto qualsiasi accenno al sesso (da questo punto di vista The Stars are Legion è piuttosto morigerato) e, soprattutto, manca una caratterizzazione originale dei personaggi che, nonostante il contesto, pensano e si relazionano una con l'altra come in una qualsiasi serial televisivo contemporaneo.
Per essere stato lanciato come un esempio delle nuove tendenze della narrativa di fantascienza contemporanea, The Stars Are Legions mi ha lasciato l'impressione di essere molto più vicino ai romanzi di un Vance o di un Farmer piuttosto che non alle opere di LeGuin o Leckie (il che, me ne rendo conto, per qualche lettore è di certo un pregio) ed è forse questa incapacità di andare oltre il puro intrattenimento l’aspetto del romanzo che più mi ha deluso.





04 luglio 2017

Letture: Dissipatio H.G. di Guido Morselli

Se dovessi pensare a un trittico ideale di romanzi che raccontano la fine del mondo, molto diversi tra loro ma tutti caratterizzati da una scrittura sopraffina, e che rappresentano ognuno un approccio specifico e riconoscibile al tema, piazzerei sul versante americano dell’ipotetico triangolo La Strada, di Cormac McCarthy (sentimenti forti, epica del viaggio, lo spettacolo della natura, per quanto distrutta e morente), mentre gli altri due lati verrebbero senz’altro occupati da Specchi neri, di Arno Schmidt (una fine morbida, un nichilismo quasi allegro, e decisamente tedesco, con la campagna splendidamente disabitata dopo l’orrore) e da Dissipatio H.G. di Guido Morselli.

Ci ho messo anni ad arrivare a quello che molti ritengono il capolavoro di Guido Morselli: Dissipatio H.G. era una presenza costante ai margini della percezione, un titolo che periodicamente ritornava, citato da amici più o meno in sintonia con i miei gusti, più o meno vicini nelle frequentazioni librarie, dentro e fuori la letteratura di genere. Ma Dissipatio H.G. non mi è mai capitato tra le mani, forse per una scarsa sincronia tra la periodica ricerca attiva del volume e l’effettiva disponibilità del libro nei luoghi dove lo cercavo. Finalmente qualche mese fa sono riuscito a trovarne una copia usata in una libreria modenese e nonostante la coda di lettura tendente all’infinito, ha preso il sopravvento la voglia di capire perché questo testo è ritenuto fondamentale da parecchi lettori di cui mi fido.

Bastano poche pagine per capire perché il romanzo di Guido Morselli ha tanti estimatori.
Dissipatio H.G. è una sorta di unicum nella produzione letteraria nostrana: un romanzo che per scrittura, profondità, complessità e ambizione potrebbe essere tra i vertici della letteratura italiana del ‘900 e insieme, un romanzo che pur facendo di tutto per distanziarsene fa propri tutti i più classici temi e situazioni della letteratura di genere.
Dissipatio H.G. racconta in forma di monologo l’improvvisa scomparsa del genere umano. Il protagonista reagisce alla sorpresa attraversando tutto lo spettro delle umane emozioni e affrontando la situazione con gli approcci più diversi (ricordando, esplorando, distruggendo, immaginando), riflettendo nel frattempo su quel che era, su quel che è, su quel che sarà, di se stesso, e dell’umanità scomparsa.
Dissipatio H.G. è un romanzo esistenzialista, un’opera apocalittica, un pamphlet nichilista, un amara riflessione sul nostro ruolo, un libro politico, un grido d'aiuto, una guida alla sopravvivenza alla modernità. Un’anarchica (e letteraria!) resa all’ineluttabilità del potere della maggioranza (economico, culturale, politico) e all'inevitabile necessità della gente, per rimandare la fine.
Un capolavoro.


30 giugno 2017

Letture: La voce del fuoco, di Alan Moore

La voce del fuoco è una guida ai dintorni di Northampton intrisa di sangue e tradimento e vendetta scritta da quello stregone di Alan Moore per esorcizzare lo spirito della sua città natale.
Dodici storie, dodici personaggi, dodici racconti in presa diretta dalla preistoria a oggi, con tutte quelle tappe intermedie (dall’occupazione romana, al medioevo, ai primi anni del ‘900) necessarie per ripercorrere la storia di una città, cresciuta tra colline e fiume, nata dal fuoco e cresciuta sul terreno fertile di leggende e maledizioni.

Alan Moore da voce e lingua (sempre diversa, sempre uguale) a una manciata di persone le cui storie singolari rieccheggiano (in luoghi e oggetti, nell’architettura e nel panorama) da un racconto all’altro. Tutte le dodici storie sono attraversate da una corrente sotterranea che scorre impetuosa tra soprannaturale e mistero, con la consapevolezza che la vera magia è tutta nei segreti e nelle suggestioni che legano i personaggi tra loro e ai luoghi che frequentano.

Entrare nel mondo di Alan Moore è affascinante per quanto faticoso: la lettura parte in salita con il racconto preistorico del ragazzo abbandonato, scritto con il lessico elementare di una lingua appena inventata (un plauso ai traduttori, che fanno un lavoro encomiabile nel rendere in italiano l’inglese rozzo e rumoroso dell’originale), per poi proseguire via via più intelligibile man mano che scorre il tempo, le storie precedenti si ammantano di leggenda e le coordinate di riferimento diventano sempre più chiare e riconoscibili al lettore.
Il fuoco del titolo è uno dei tanti elementi che ritornano più e più volte nel libro, che contribuiscono a creare memoria e contesto: la fiamma che genera e quella che uccide, il fuoco purificatore, quello che salva e quello che semplicemente brucia speranze e ricordi.

La voce del fuoco è un libro che è difficile scordare, anche se non so quanto sia memorabile.
Il ritratto che l’autore offre di Northampton è certo parziale, oscuro, e forse anche pretenzioso, ma gli scorci di Storia che offre, le voci molteplici e uniche dei personaggi, l’invenzione che si mescola al reale, offrono scorci di verità che ben difficilmente un libro di storia potrà mai essere in grado di trasmettere al lettore.



26 giugno 2017

Visioni: Enemy (2013)

 
Non vado più al cinema come un tempo, e anche le visioni televisive son sempre meno, ma quando ti capita di scoprire un autore che senti in qualche modo vicino, la voglia di recuperare le sue cose diventa una priorità.
In questo senso Denis Villeneuve sta rapidamente diventando uno di quei registi di cui ti chiedi come hai fatto a fare senza fino ad ora.
Dopo aver visto Arrival son riuscito a vedere lo straordinario Prisoner, ma il bello doveva ancora arrivare: ieri ho visto Enemy e bé, non riesco a smettere di pensarci.

Per farla breve, Enemy potrebbe essere una versione intimista di Fight Club, oppure una ripresa autoriale del classico film di mostri (e il mostro, come da tradizione, è quest'umanità isolata).
Enemy non offre alcuna spiegazione, e il finale (quel finale!!!) lascia lo spettatore con molti più dubbi che risposte.
Enemy (tratto da un romanzo di Josè Saramago) è un film politico, una pellicola esistenzialista, un thriller psicologico, un ritratto sull'angoscia contemporanea, e anche di più, a seconda dello spettatore che vi si imbatte, che potrebbe pure trovarlo noiosissimo, ma tant'è…

Dopo aver letto Cecità, m'è venuto naturale accostare Saramago a Ballard. Un Ballard decisamente più umano, con un approccio più strutturalmente politico e con qualche scintilla di speranza in più. Ma i territori in cui si muovono sono gli stessi: l'umanità traumatizzata dalla contemporaneità, il confronto psicopatologico tra individuo e società, le tensioni omologante e la violenza sotterranea.
In Enemy c'è tutto questo, intessuto di grande cinema, e con intepreti (Jake Gyllenhaal, Mélanie Laurent, Helen Bell) straordinari nel rendere percepibili, con il sesso, gli sguardi, i silenzi, tutto il mistero delle nostre vite solitarie, spaventate e perdute.

Guardatelo, che merita.

13 aprile 2017

Letture: Senza un cemento di sangue, di Anna Feruglio Dal Dan

La lettura di Senza un cemento di sangue, di Anna Feruglio Dal Dan mi ha travolto come da tempo non mi succedeva con un romanzo.

Senza un cemento di sangue è forse la prima space opera italiana che mi capita di leggere che risulta convincente, appassionante e complessa come quelle che solo i migliori autori anglosassoni hanno saputo produrre.
Nel romanzo rieccheggiano ben distinguibili gli echi della lettura dei romanzi di Banks, o Le Guin, o Bujold, e si avverte anche l’urgenza di scrivere un’opera che affronti temi resi popolari da decine di film (avete presente Star Wars?) ma con un piglio adulto, consapevole e senza facili concessioni al lettore. Ma Senza un cemento di sangue non risulta in alcun modo un’opera derivativa o men che originale: gli scorci e i panorami che fanno da sfondo alla vicenda danno l’idea di un mondo ottimamente congegnato, con una storia secolare solida e profonda che però non viene mai raccontata al lettore, quanto piuttosto suggerita, come se tutto il romanzo non fosse altro che una finestra  su un universo che potrebbe offrire un'infinità di storie altrettanto ben strutturate, altrettanto interessanti, altrettanto appassionate.

Senza un cemento di sangue narra una storia di lotta e repressione, una storia di ribellione contro un regime spietato. Anna Feruglio Dal Dan non risparmia nulla al lettore che dev’essere dunque avvertito: questa storia fa male, malissimo.
Alcune pagine risultano quasi insostenibili per la quantità di sofferenza che si portano dietro, ma al tempo stesso il suo carico emotivo risulta tanto ben intessuto in una trama ricca di suggestioni che la soddisfazione che si prova nel corso della lettura va di pari passo con l’inevitabile coinvolgimento nel destino dei personaggi, che vediamo trascinati fino agli esiti più dolorosi di un percorso di resistenza a un potere senza scrupoli.
Sono i personaggi del romanzo (quelli principali, quelli che compaiono solo per una scena, quelli che vedi passare sullo sfondo) il motivo per cui una volta iniziato non riesci più a posare il volume: a partire da Thuien e Creyna, i due antagonisti, con motivazioni così credibili e forti, e resi così vivi, da risultare indimenticabili, a Nikla, a Vanja, con il loro carico di responsabilità e segreti, fino a Mahra, che compare per poche pagine, ma tanto importanti da rendere il suo ricordo indelebile.

Senza un cemento di sangue è soprattutto la conferma che anche in italiano si possa produrre fantascienza di qualità, capace di avvincere, senza disdegnare la possibilità di far riflettere il lettore. Una fantascienza ambiziosa per i temi che affronta e per il piglio autorevole con cui conduce il lettore tra le pieghe di un nuovo universo, una fantascienza consapevole di appartenere a un ambiente letterario evoluto e complesso, capace di confrontarsi alla pari con i più importanti autori internazionali.

Leggetelo, che merita.

30 marzo 2017

Letture: Spettri di ghiaccio, di Maico Morellini

Non sono un gran frequentatore della letteratura horror/misteriosa, ma ero curioso di leggere Maico Morellini, apprezzato autore fantascientifico, alle prese con una storia di mare che rieccheggia programmaticamente temi e atmosfere del racconto gotico d’antan, attualizzandone situazioni e personaggi.

Al termine della lettura posso dire che l’obiettivo è stato raggiunto nel  migliore dei modi. Spettri di ghiaccio funziona su tutti i livelli: non solo Morellini si dimostra un conoscitore sopraffino delle storie cui si ispira,  ma grazie a una scrittura avvincente e controllata riesce ad aggiornare il canone cui si riferisce con un’attenzione ai dettagli e un livello di realismo sorprendente.

Spettri di ghiaccio racconta l’esito della caccia decennale alla nave fantasma Lyubov Orlova (esiste davvero!), persa nell’Atlantico settentrionale e avvolta da inquietanti leggende. La splendida fusione di tecnologie attuali e personaggi in perfetto equilibrio tra una caratterizzazione che rimanda ai classici e una personalità che riesce comunque a imporsi al lettore, insieme al dosaggio sapiente della suspance e degli elementi d’atmosfera, rendono il racconto memorabile.

Spettri di ghiaccio è il quarto volume della collana Miskatonic prodotta da Vincent Books in collaborazione con la Miskatonic University di Reggio Emilia, lo trovate rivolgendovi alla libreria o andando a trovare l’editore in una delle numerose manifestazioni cui partecipa in giro per l’Italia.

29 marzo 2017

Ultime notizie dalla Zona - marzo-aprile 2017

Post in mirror con il sito di Zona 42, per comunicare anche qui dentro le ultime notizie dalla Zona.




Bentornati nella Zona!

Zona 42 compie tre anni: tempo di bilanci, nuove uscite, promozioni, eventi! Ecco le ultime notizie dalla Zona.


ZONA 42: 2014-2017 tre anni di nuova fantascienza in Italia
 
A marzo 2014 eravamo talmente indaffarati a ultimare la preparazione di Desolation Road che non abbiamo avuto molto tempo per riflettere su quel che significava debuttare con il titolo di Ian McDonald sulla scena editoriale italiana.
Appena uscito il romanzo eravamo talmente indaffarati ad organizzarci per farlo arrivare ai lettori, sul sito, nelle librerie, che non abbiamo avuto molto tempo per valutare l'impatto che il nostro libro avrebbe avuto nel piccolo mondo della fantascienza italiana.
Da lì in avanti è stata una continua corsa, per cercare di mantenere l'impegno preso coi lettori, per fare arrivare in libreria sempre nuova, ottima fantascienza, nelle sue più diverse sfaccettature, e al contempo tenere sotto controllo l'andamento economico della Zona e la gestione delle nostre energie, per focalizzare gli sforzi alla produzione dei nostri libri e non disperderli negli innumerevoli dettagli di cui si compone anche una micro realtà editoriale come la nostra.

A tre anni di distanza possiamo dire di essere moderatamente soddisfatti dei risultati raggiunti: grazie alla qualità delle nostre proposte ci siamo costruiti una buona reputazione tra i lettori, il dialogo costante con chi legge e chi vende i nostri libri non è mai mancato ed è sempre stato improntato alla massima trasparenza. Abbiamo lavorato con autori e traduttori che ci hanno ripagato con una straordinaria disponibilità e la qualità ineccepibile del loro lavoro. Abbiamo in catalogo 12 titoli di cui siamo molto molto orgogliosi. All'inizio della nostra avventura speravamo di riuscirne a pubblicare qualcuno di più, ma la necessità di far quadrare la vita della casa editrice e le nostre rispettive esistenze al di fuori della Zona non ci ha permesso di essere più produttivi di così.

Ad oggi il nostro titolo più venduto è Desolation Road, di Ian McDonald che ha un buon vantaggio sui quattro titoli che seguono, che sono più o meno tutti alla pari: Il Sole dei Soli di Karl Schroeder, Dimenticami Trovami Sognami di Andrea Viscusi, Real Mars di Alessandro Vietti e Arresto di sistema, di Charles Stross.
Nel complesso ci aspettavamo un risultato migliore dalla trilogia arabesca di Jon Courtenay Grimood: Pashazade, Effendi e Fellahin sono tre titoli che si sono distinti egregiamente nel mercato anglosassone, con una serie di nomination e vittorie al BSFA (il premio più importante dedicato alla letteratura di genere nel Regno Unito) che è difficile vedere tributati anno dopo anno ai volumi di una stessa trilogia.
Qui in Zona abbiamo amato moltissimo le avventure di Ashraf Bey, ma evidentemente non siamo riusciti a comunicare nel modo migliore ai lettori le potenzialità di questa serie di titoli.
In questi tre anni di attività abbiamo sicuramente commesso qualche errore dovuto all'entusiasmo e all'inesperienza. L'unico che col senno di poi non rifaremmo è partire con la proposta immediata di due trilogie, che con le uscite dei rispettivi titoli a pochi mesi di distanza uno dall'altro hanno tenuto impegnati parecchi degli slot di pubblicazione che avevamo a disposizione. La decisione era nata con l'entusiasmo dei primi mesi: eravamo infatti convinti di riuscire a pubblicare ben più dei quattro titoli all'anno che siamo poi effettivamente riusciti a fare. D'altra parte l'impegno coi lettori è stato chiaro sin da subito: non avremo mai, per nessun motivo, interrotto un ciclo di romanzi di cui abbiamo promesso la pubblicazione integrale. A tre anni di distanza siamo orgogliosi di poter vedere allineate sui nostri scaffali le due trilogie complete, quella di Virga di Karl Schroeder e quella Arabesca di Jon Courtenay Grimwood ed è un risultato che realtà editoriali ben più blasonate della nostra non sempre sono riuscite a garantire.
Ma non aspettatevi nuove trilogie dalla Zona a breve!

Per il prossimo futuro ci aspettano grandi novità, e un paio di debutti che visti da fuori non appariranno come qualcosa di straordinario, ma che per noi rappresentano due belle sfide: l'esordio della nostra nuova collana Altre Meraviglie e la pubblicazione della nostra prima antologia di fantascienza italiana, curata da Giorgio Majer Gatti, che ha l'ambizione di porsi come il più significativo volume antologico del genere ad arrivare in libreria negli ultimi anni.

Voi continuate a seguirci e a sostenerci, non ve ne pentirete!


 
ARRIVANO LE ALTRE MERAVIGLIE DELLA ZONA

La altre meraviglie che ci aspettiamo di pubblicare nell'omonima nuova collana in arrivo a brevissimo son quelle che per un motivo o per l'altro non ci sembrava coerente presentare tra I libri dell'Iguana, che rimarrà la nostra collana principale. Proporremo il recupero di titoli che sono secoli (letteralmente!) che non sono a disposizione dei lettori, ma pubblicheremo anche volumi che non sono classificabili come fantascienza, e autori che ci hanno colpito per la qualità della proposta e l'originalità della scrittura.

È nostra intenzione pubblicare nella collana almeno un libro all'anno, partendo con Ad Astra, di Antonio de' Bersa, romanzo che ci è stato presentato da Jacopo Berti, che ne ha curato personalmente la riedizione, e che ci ha sorpreso per la freschezza del testo e per la sue caratteristiche che lo rendono un libro unico, per le suggestioni fantascientifiche e per lo sguardo d'epoca su un lontano futuro non privo d'inquietudini e speranze.
Tra qualche giorno vi presenteremo la copertina e inaugureremo la pagina del nostro sito dedicata al romanzo, ma già da oggi è possibile preordinare il volume al prezzo speciale di 10 euro sulla pagina che presenta il nostro catalogo.
 


TRE ANNI DELLA ZONA: LA PROMOZIONE 
 
Per festeggiare i tre anni della Zona proponiamo ai nostri lettori l'acquisto di tutti i nostri primi dodici volumi al prezzo speciale di 150 euro, spese di spedizione con pacco tracciabile comprese. In un colpo solo potete farvi arrivare a casa i romanzi di Ian McDonald, Karl Schroeder, Jon Courtenay Grimwood, Andrea Viscusi, Charles Stross, Tricia Sullivan, Alessandro Vietti e Jennifer Marie Brissett. E se li avete già letti potete approfittare dell'occasione per regalare dell'ottima, sorprendente fantascienza a quei lettori che ancora non ci conoscono e che potrebbero finalmente apprezzare il nostro genere preferito.




ZONA 42 A TEMPO DI LIBRI

Dal 19 al 23 Aprile ci troverete alla fiera di Milano per Tempo di libri. Per noi sarà la prima volta ad una manifestazione libreria di queste dimensioni, vedremo se il nostro piccolo stand reggerà l'assalto delle folle di lettori che verranno a trovarci! A parte gli scherzi, se ci verrete a trovare sarà un'ottima occasione per scambiare due chiacchiere su libri, letteratura, fantascienza. A breve vi faremo sapere tutti i dettagli sulla nostra partecipazione all'evento milanese. A presto!

15 marzo 2017

Letture: Tito di Gormenghast, di Mervyn Peake

Ultimo titolo memorabile letto nel 2016. Nei prossimi post si parlerà (finalmente!) dei primi libri da ricordare in questo 2017. Saranno sempre brevi flash per riflettere sulle letture fatte, e magari offrire agli eventuali passanti un piccolo spazio per confrontarsi su autori e titoli che hanno apprezzato (o anche no, il bello della lettura è che ognuno è solo con il libro e i propri gusti, propensioni, idiosincrasie ed esperienze).


Oggi si parla di Tito di Gormenghast, di Mervyn Peake.

Tito di Gormenghast è un romanzo straordinario, che non ha eguali nella mia esperienza di lettore. Parte come una vecchia favola: il castello, il vecchietto misterioso, il tetro maggiordomo, il ragazzo perduto e via via uno stuolo di servitori dall’apparenza bestiale. Ma è solo la prima impressione, che già da subito la scrittura roboante, esagerata, ricchissima di Mervyn Peake rende immediatamente chiaro al lettore che siamo in altri territori narrativi.

Quella di Tito di Gormenghast è una storia fantastica, dominata dalla presenza assoluta e inevitabile dal Gormenghast del titolo, fortezza eterna e cupa montagna incombente (e non è chiaro chi ha preso il nome da chi). Gormenghast è una Fortezza Bastiani in versione britannica, abitata da una serie di personaggi indimenticabili, tratteggiati tra il grottesco e il caricaturale dalla penna ispirata dell’autore che si ferma appena in tempo prima di trasformarli in macchiette. Sono vivi e bruciano di desiderio e ambizione, sono brutali ed egoisti e generosi, e tutti insieme lottano macchinano e strepitano (a seconda delle rispettive singolari personalità) per erodere, scalfire, rompere lo scenario immobile che ha intagliato per ognuno di loro un ruolo preciso, apparentemente immutabile eppure fragile all’interno dell’universo di Gormenghast.

Tito è l’erede al trono della casata dei De Lamenti, signori di Gormenghast, ed è la sua nascita a scatenare le trame e gli accadimenti che sanciranno il destino degli abitanti della fortezza e dei suoi sobborghi. La narrazione alterna punti di vista e personaggi, descrizioni (dense e ricchissime) a momenti d’azione (brevi e fulminanti). Protagonista della narrazione è il ritratto spietato di una nobiltà critallizzata nel rituale delle relazioni di corte al confronto con il vitalismo bestiale del popolo che li circonda, illuminato a tratti da momenti di emozione quasi commoventi (ma mai patetici) e disinnescato nei suoi tratti più terrificanti da un vena di umorismo folle e sotterraneo che accentua i tratti tragici della vicenda e accompagna il lettore fino alla fine del volume.
Come ogni storia fantasy che si rispetti, Tito di Gormenghast è il primo volume di una trilogia, che si completa con i successivi Gormenghast e Via da Gormenghast, tutti editi da Adelphi, anche se non tutti di facile reperibilità.

17 febbraio 2017

Letture: Absolutely Nothing, di Giorgio Vasta e Ramak Fazel

Proseguo la carrellata sulle migliori letture fatte nel 2016 (lo so, siamo già a febbraio, ma dopo questo ne manca solo una…), brevi flash per ricordare e riflettere sui libri che ho letto, e magari offrire agli eventuali passanti un piccolo spazio per confrontarsi su autori e titoli che hanno apprezzato (o anche no, il bello della lettura è che ognuno è solo con il libro e i propri gusti, propensioni, idiosincrasie ed esperienze).

Oggi si parla di Absolutely Nothing - Storie e sparizioni nei deserti americani, di Giorgio Vasta e Ramak Fazel.

Absolutely Nothing, Storie e sparizioni nei deserti americani è forse il libro più sorprendente letto nel 2016. Non è un romanzo, piuttosto un curioso ibrido tra diario di viaggio, saggio psicogeografico sul sud-ovest degli Stati Uniti, parabola metafisica e pop sull’immaginario (cannibale) e la realtà (immensa) che circonda come un territorio alieno i protagonisti di questa sorta di esplorazione, vagabondaggio, vacanza in uno dei territori più frequentati dall’immaginario occidentale.

Giorgio Vasta, in compagnia del fotografo Ramak Fazel e dell’editore Giovanna Silva partono per due settimane on the road alla ricerca degli spazi conquistati, abitati e poi abbandonati ai margini del deserto americano. Si parte da improbabili progetti di urbanizzazione turistica, si esplora quel che rimane dei sogni di divertimento eretti come cattedrali nel deserto, si visitano vecchi siti minerari e comunità sopravvissute alla fama improvvisa e al rapido declino di qualche apparizione cinematografica. Si passa per Roswell e si arriva fino a New Orleans. In mezzo incontri con personaggi che sopravvivano, resistono e prosperano (si fa per dire…) ai margini del grande sogno americano.

Foto di Ramak Fazel

A condire il racconto il rapporto con il viaggio e l’immaginario americano delle voci narranti, con un Giorgio Vasta abbacinato e disperso, Ramak Fazel portatore di una vaga vena di scazzo e divertimento, e Silva nel ruolo di voce enciclopedica e guida razionale al viaggio d’esplorazione.
Ai margini del racconto la famiglia antropofaga che imperversa alla periferia della visione, nutrendosi delle stesse immagini che ha contribuito a creare, e le felici citazioni del testo che forse più si avvicina al mood di questo viaggio, quel Continuum di Gernsback di William Gibson che narra in forma di racconto quei sogni di un futuro passato di cui il deserto americano sembra non possa fare a meno di continuare a cibarsi.

Absolutely Nothing è un libro sorprendente perché, nonostante non aggiunga nulla di nuovo alle riflessioni che qualsiasi viaggiatore che si muova consapevolmente in quelle lande (che i viaggi siano virtuali o reali non è importante) si trova costretto a fare (è una questione di dimensioni, che un paesaggio così enorme ha bisogno di una lettura che aiuti a circoscriverlo, pena la perdita di qualsiasi punto di riferimento), ne da un’interpretazione in perenne fase discendente, senza enfasi, senza retorica, senza epica. Ed è un approccio raro e prezioso, affrontando certi spazi che, ormai è assodato, hanno definitivamente colonizzato il nostro subconscio.
Il dubbio che risuona a fine lettura, alla fine del viaggio, è però molto più concreto: Giorgio Vasta si sarà divertito durante questa sorta di vacanza di lavoro?
Chissà…

08 febbraio 2017

Letture: Cecità, di José Saramago

Proseguo la carrellata sulle migliori letture fatte nel 2016 (lo so, siamo già a febbraio, ma dopo questo ne mancano ancora solo due…), brevi flash per ricordare e riflettere sui libri che ho letto, e magari offrire agli eventuali passanti un piccolo spazio per confrontarsi su autori e titoli che hanno apprezzato (o anche no, il bello della lettura è che ognuno è solo con il libro e i propri gusti, propensioni, idiosincrasie ed esperienze).

Oggi si parla di Cecità, di José Saramago.

Cecità è un romanzo fisico, quasi biologico: di colpisce nella carne, ti impressiona i sensi, fa accaponare la pelle e accarezza la tua anima pensante. È un libro in cui il non vedere domina, ma che tu lettore non puoi fare a meno di visualizzare, tanto potenti sono le immagini che Saramago ti piazza sotto gli occhi. 

Cecità ha (meritata) fama di essere anche un testo politico, dove per “politico” si intende spesso quella caratteristica della distopia per cui gratta gratta la scorza di civiltà che regola il nostro vivere sociale vien via in un attimo, nel tempo che serve a riconquistare la soddisfazione dei propri bisogni primari. Ma in questo senso Cecità non ha nulla di particolarmente originale, soprattutto per un lettore di fantascienza, che di storie che affrontano l'apocalisse civile sono ormai piene le librerie.

Dal mio punto di vista le qualità politiche del romanzo emergono invece prepotenti nella scelta di rendere anonimi i protagonisti, nel caratterizzarli per le loro  azioni e per la loro capacità solidale, nel legare il privilegio alla massima sofferenza, e quindi alla responsabilità e, infine, nell’imporre alla narrazione e quindi alla memoria un ruolo quasi passivo, di registratore pavido e indispensabile (penso al personaggio dello scrittore, alter ego consapevole dell’autore stesso).

Non so se Cecità rappresenti il culmine dell’opera di José Saramago: certo è un romanzo perfetto nella sua semplicità, come un sasso che ti colpisce in mezzo agli occhi.


27 gennaio 2017

Letture: Uomini e cani, di Omar Di Monopoli

Proseguo la carrellata sulle migliori letture fatte nel 2016 (dopo questo ne mancano ancora tre!), brevi flash per ricordare e riflettere sui libri che ho letto, e magari offrire agli eventuali passanti un piccolo spazio per confrontarsi su autori e titoli che hanno apprezzato (o anche no, il bello della lettura è che ognuno è solo con il libro e i propri gusti, propensioni, idiosincrasie ed esperienze).

Oggi si parla di Uomini e cani, di Omar Di Monopoli.


Non so se la fuori amate il primo Lansdale come me, le sue storie essenziali, secche eppure brillanti. Quei personaggi scolpiti nella pietra che diventano vivi nonostante tutte le apparenze. Le trame complesse eppure chiarissime, nei loro sviluppi, incroci, ribaltamenti. La passione per quel che ci circonda, che nonostante lo schifo c’è sempre qualcosa da salvare.

Ecco, se amate questo tipo di storie Uomini e cani è il romanzo perfetto per trascorrere qualche ora tra le lande derelitte e desolate di una Puglia periferica, tanto dimenticata da sembrare quasi Texas.

Di Omar di Monopoli avevo sentito parlare benissimo in rete da più di un amico, ma se finalmente sono riuscito a leggerlo lo devo a Eddy (che dopo averlo sentito decantarne i pregi mi sono sentito praticamente obbligato a provarlo) e ai ragazzi della Miskatonic University di Reggio Emilia, che son riusciti a recuperarmi una copia del libro altrimenti introvabile.
Uomini e cani è stata la lettura pulp dell’anno, dopo la (quasi) delusione degli ultimi Lansdale letti, Omar Di Monopoli non mi ha fatto rimpiangere nemmeno per un attimo lo scrittore texano. 



24 gennaio 2017

Visioni: Arrival (2016)


In questi giorni la rete pullula di recensioni, osservazioni, note critiche e grida d'entusiasmo nei confronti di Arrival, il film che Denis Villeneuve ha realizzato partendo dal magnifico racconto Storia della tua vita di Ted Chiang.
Da parte mia non ho alcuna intenzione di proporvi una recensione (in giro ce ne sono un sacco che analizzato la pellicola molto meglio di quanto sarei in grado di fare io), anche perché ho talmente amato il film che qualsiasi cosa io possa scrivere sarebbe viziata in partenza.

Quel che voglio provare a fare è cercare di capire e riassumere i motivi per cui Arrival è stato un colpo al cuore:
- il rispetto per il testo originale, e in generale la fedeltà della narrazione cinematografica ai temi, alle atmosfere e alle idee di Storia della tua vita. Arrival non ricalca pedissequamente il racconto di Chiang, ma ne mantiene intatto lo spirito nonostante le differenze dei media coinvolti, e lo fa splendere;
- il viso dolente e concentrato di Amy Adams, perfetta nel ruolo della dottoressa Banks (e la meraviglia, quando serve… wow!);
- le astronavi;
- la narrazione della scienza e degli scienziati, pacata e meravigliosa, e senza nessuno spiegone (o quasi);
- l'anelito ideale e la speranza: vedere i più classici dei militari e funzionari governativi cambiare idea, e mettersi a disposizione senza mai, per nessun motivo, abdicare al loro stronzissimo ruolo;
- l'attentato, spiegato senza una sola parola eppure trasparente nella sua disperata volontà di distruzione;
- la lingua aliena, bellissima;
- i ricordi che procedono in entrambi i sensi, e l'amore che invece va a senso unico;
- l'equilibrio tra storia personale e storia collettiva;
- il senso del meraviglioso, sussurrato e sparso a piene mani in ogni dove;
- la sensazione di ritrovarsi a vedere un film fatto apposta per me, con tutte le cose giuste al posto giusto, per emozionarmi come poche altre volte;

Insomma, andatelo a vedere, è bellissimo.

13 gennaio 2017

Letture: Il cinghiale che uccise Liberty Valance, di Giordano Meacci

Proseguo la carrellata sulle migliori letture fatte nel 2016, brevi flash per ricordare e riflettere sui libri che ho letto, e magari offrire agli eventuali passanti un piccolo spazio per confrontarsi su autori e titoli che hanno apprezzato (o anche no, il bello della lettura è che ognuno è solo con il libro e i propri gusti, propensioni, idiosincrasie ed esperienze).

Oggi si parla de Il cinghiale che uccise Liberty Valance, di Giordano Meacci.

Come mai tra i libri italiani letti nel 2016 Il cinghiale che uccise Liberty Valance è quello che mi ha colpito di più?
Merito di Apperbohr, il cinghiale protagonista del romanzo, che si pone come splendido riflesso della vita confusa e impoverita degli umani che vivono nel paese di Corsignano, persi nella loro quotidianità fatta di abitudini, cerchi in tondo, poche illusioni, frustrazioni e desideri anche troppo terreni.
Il cinghiale illuminato da un’improvvisa consapevolezza fa da splendido, ingenuo e potente contraltare alla comunità umana: grufola nel fango, ma guarda al cielo, e non smette mai, nemmeno per un attimo, di porsi domande e cercare significati e significanti nella luce sorprendente di una coscienza vergine.

La scrittura di Giordano Meacci è stupefacente per come rende vivi e riconoscibili le decine di personaggi che ricorrono (e si rincorrono) nel romanzo, nonostante il montaggio non lineare degli avvenimenti, scelta azzardata forse, ma indispensabile per immergere senza mediazioni il lettore nel disordine e nella casualità che caratterizza le loro esistenze. Pur nella fugacità della loro presenza ci si affeziona agli uomini e alle donne di Corsignano e alle loro relazioni, ci si riconosce nel loro vagare e nelle loro necessità, ci si illude che un’ordine superiore possa ricondurre la normalità delle loro esistenze a uno schema propriamente romanzesco, con l’unico risultato di ritrovarsi alla conclusione del libro con un’unica agrodolce verità, e un filo di commossa emozione, tutte rinchiuse nel destino di Apperbohr.

Il cinghiale che uccise Liberty Valance è un romanzo straordinario e sorprendente, concreto e meraviglioso. Un libro che chiede molto al lettore, ma che in cambio gli offre una nuova prospettiva sulla vita, l’universo e tutto quanto. Non capita spesso.